Recensione su Stalker

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DEUS SIVE NATURA / 12 Dicembre 2013 in Stalker

In un mondo ingrigito, infecondo, nebbioso, colmo delle macerie umane, dove tra gli edifici diroccati e tra gli acquitrini va languendo una civiltà sempre più estranea a se stessa – qui, dunque, esiste ancora un luogo indomito, temuto dai Governi: esso nella vaghezza del silenzio è battezzato come la Zona, e appare recintato, pattugliato, ma ancora vivo, ancora portatore di una sacralità che palpita tra le selve e i fiumiciattoli sparsi nel cuore dei villaggi disabitati. Eppure la Zona è anche un luogo assai pericoloso, forse il più pericoloso che rimanga, poiché sotto l’influsso di un’energia misterica, di probabile origine extraterrestre, gli inganni e i rischi mortali mutano in continuazione – e come un monito, sulle alture, le carcasse di alcuni carri armati trasmettono la propria fallimentare impotenza al cospetto di qualcosa di infinitamente più grande, di profondamente più antico. Ciò nondimeno, vi sono degli uomini, gli Stalker, a conoscenza delle segrete vie che conducono nell’epicentro della Zona, laddove una cosiddetta Stanza permette ai più infelici di realizzare i desideri che dimorino nell’intimità recondita dei loro animi. Ed è proprio ad uno Stalker (Aleksandr Kajdanovskij), padre di una bimba mutante, che si rivolgono due individui, uno Scrittore ed un Professore (quest’ultimo in realtà un Fisico), per raggiungere la miracolosa Stanza, e veder lì soddisfatte le proprie volubili nonché torbide ambizioni.
Sette anni dopo “Solaris”, riadattando il romanzo “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, Tarkovskij si reimmerge in una fantascienza intrisa di umanesimo e di uno spiritualismo catartico, ben lungi dagli approdi filosofico-estetici del Kubrick di “2001 – Odissea nello Spazio”. La fantascienza del regista russo, infatti, depotenzia gli estremismi visivi e cromatici del collega statunitense, proiettando la visionaria dimensione narrativa dentro i corpi lacerati, deformi e afflitti dei vari personaggi, e amplificandone la potenza simbolica tramite una pacatezza quanto mai lirica, una quiete, una staticità sempre fedele dell’ambiente circostante: i movimenti progressivi e spesso impercettibili della macchina da presa, le morbide carrellate, i piani sequenza, le lentissime zoomate che espandono o rinchiudono il quadro dell’immagine, man mano, senza che lo spettatore ne assuma una vera coscienza. Al contempo si può passare, così, da un intenso e contrastato bianco e nero, ad una sfumatura di seppiato, fino ai colori poco limpidi e velati – ma nulla più di questo, e soprattutto, mai contravvenendo ad un’armonia che ha fatto della sobrietà la propria nota dominante.
Se un conflitto ed una tensione esistono – e difatti vi sono, enormi – essi bruciano sottopelle nella psicologia arida e frustrata del Professore (Nikolaj Grin’ko) e dello Scrittore (Anatolij Solonicyn), mentre l’incomunicabilità della bellezza, l’inspiegabilità della fede, il poetico e malinconico misticismo quasi pagano dello Stalker lo rendono, a tutti gli effetti, l’ultimo sacerdote al quale sia stato affidato un culto sepolto e temuto.
Ormai non ci troviamo più, come in “Solaris”, a bordo di una stazione spaziale dominio del nostro inconscio, né dinanzi ad un Pianeta-Dio con cui instaurare un ignaro contatto; il nostro interlocutore muta, cioè, dall’essere un Nous creatore e generoso, in un “Deus sive Natura” col rigore austero e sanguinario tipico del Dio ebraico, sebbene elargitore comunque di doni immensi (ovvero i profondi desideri esauditi presso la Stanza). Mentre su Solaris le reliquie umane non esistono ancora, o vengono inghiottite e plasmate dal magma cerebrale alieno, all’interno della Zona, invece, i relitti della civiltà sono sopraffatti, nascosti nell’acqua, tra le fenditure da cui irrompono turbinose cascate, laddove i pavimenti di quelle che un tempo furono chiese giacciono ora sommersi dallo stagno e dal muschio. La volontà della Zona, dunque, è di preservare, seppur consumando – di purificare nel sacrificio. E lo Stalker accetta questa funzione, sino quasi a venerarla, senza chiedere null’altro che i soldi per mantenere la propria famiglia: sazio della speranza e di quei sogni altrui, che, tramite la sua mediazione, trovano accoglienza nel tempio; e infine abbattuto su di un giaciglio, come febbricitante, dolendosi poiché l’Uomo, avvelenato dalla saccenteria dell’intelletto, non crede più in nulla ed anzi ha terrore del desiderio.
La narrazione sfilacciata, totalmente atemporale, dilatata sino all’estremo, gode quindi di un commento sonoro lieve nel riverbero: un flauto lontano, appena accennato; per poi giungere, infine, all’esplosione d’una Nona Sinfonia, che funga da riscatto alla squallida vacuità umana.

3 commenti

  1. schizoidman / 13 Dicembre 2013

    “Stalker” è un film con la F maiuscola. Il pessimismo di Andrej Tarkovskij qui raggiunge vette inaudite. L’ho visto una volta sola un po’ di anni fa, “Stalker”, ma quell’unica visione mi ha lasciato un’impressione enorme. E’ un film semplicemente strabiliante. Grande Tarkovskij.

  2. zvut / 13 Dicembre 2013

    Oserei dire che è a mio avviso la vetta più alta raggiunta dal Maestro, il film in cui si cristallizzano “Lo specchio” e “Solaris” mentre l’ultimo periodo “Nostalghia” e “Sacrificio” lo trovo una splendida deriva.
    Se la gioca con il “Rublev”, ad ogni modo è un punto di non ritorno, dopo aver apprezzato un film del genere cambia la percezione del bello, il resto impallidisce dinanzi a cotanta bravura.

  3. hartman / 4 Giugno 2015

    d’accordo su molto e bella recensione!! anche se io qualche assonanza (strutturale, non stilistica) con 2001 ce l’ho vista…

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