Ad libitum / 31 Maggio 2019 in Sleep

L’importanza di “Sleep” sta ovviamente, e solamente, nel gesto plateale: nel fatto performativo di poter dire, attraverso il film: il cinema è anche questo (ovvero 5 ore abbondanti di un corpo – quello di John Giorno – che dorme, senza sonoro; o, in altre parole, l’essere umano ripreso in un’azione quotidianissima, nei suoi minimi gesti e privo di ogni sostrato simbolico, in un film che potrebbe essere anche ripetuto all’infinito senza nulla togliere o aggiungere).
A ben guardare, l’opera non è molto diversa dai primi film dei Lumière e in generale da tutto il cinematografo arcaico (pre-Méliès?), solo dilatata fino all’inverosimile. Ovviamente, presentata in regime di pieno cinema narrativo e, appunto, con una tale dilatazione, assume una valenza del tutto diversa.
Una volta detto che il cinema è anche questo, però, e una volta introiettato dalla massa che fruisce di cinema (e direi che il discorso è stato già bell’e digerito) il film torna a vivere solo del suo contenuto, e il contenuto è sia poverissimo sia tremendamente lungo, e risulta l’esperimento meno interessante della celebre trilogia di Warhol.
Aveva senso negli anni ’60, insomma, ma rivisto oggi è una gran rottura di palle (e, ça va sans dire, ne ho saltate delle parti e avanti-velocizzate delle altre senza alcun rimorso, e che ci sia qualcuno al mondo che l’abbia visto per intero è tutto da dimostrare).

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