Berlino premia spesso film di contenuti, e credo che la logica del riconoscimento assegnato a Sister possa trovarsi qui. Registicamente non sembra avere particolare pretese, se non accordarsi a quella che mi sembra l’intenzione riconoscibile dietro l’intera operazione: ritrarre uno spaccato, mostrare una condizione.
Infatti:
Sister non promette un’emancipazione, non promette un’evoluzione, non mostra un passato verso un futuro, non vi sono progetti, non vi sono percorsi, ma solo un definito, ripetitivo, a-critico status quo dal quale i personaggi non cercano davvero di uscire, o di emanciparsi.
Tuttavia, è difficile dirne di più senza svelare elementi di trama essenziali alla godibilità della pellicola. Quindi, ecco solo qualche spunto:
– l’ho visto volentieri, mi ha incuriosito, mi ha trascinato dentro il mondo che ritrae, e che non ha certamente assolutamente niente di attraente
– mi è piaciuta la non-riflessione che pone riguardo a tipologie di relazione possibili – valide, nutrienti o distruttive che siano
– nel momento clou (e qualche altra scena “relazionalmente” tremenda), mi ha preso lo stomaco (e non mi considero una sentimentale, nel senso comune del termine)
– Simon (Kacey Mottet Klein) è bravissimo, più che convincente, più che perfetto in questa parte da topo in trappola, che fa il gioco del gatto e insieme non riesce a rinunciare all’istinto di liberarsi (ma dalla porta sbagliata)
– anche Louise (Léa Seydoux) è brava in questa parte da gatto che gioca con il topo senza mai dimenticare del tutto l’istinto aggressivo del predatore sulla preda…
– la scenografia – soprattutto nella zona “popolare” o durante il tragitto del trasferimento tra i due mondi – è così perfettamente (non)espressiva
Insomma, un film interessante che ha decisamente fatto sì che Ursula Meier sia una regista di cui osserverò i percorsi, a partire subito dal precedente Home che ancora non ho visto.
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