Recensione su Shutter Island

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14 Agosto 2014

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Uno dei film più sconvolgenti, inquietanti e destabilizzanti degli ultimi tempi, Shutter Island si innesta nel filone dello psico-thriller, con punte di horror, ricalcando i passi (e il successo) de Il sesto senso, film a cui sembra chiaramente ispirarsi quanto alla struttura.
Solo che qui il colpo di scena finale è duplice:
– quello, invero più centellinato, della avvenuta consapevolezza da parte del protagonista (e dello spettatore) della propria follia, nonchè
– quello, in zona cesarini, affidato alla battuta finale di Di Caprio, che lì per lì lascia storditi, aprendo la mente alle probabili interpretazioni.
Personalmente, l’interpretazione maggioritaria del finale mi sembra anche la più plausibile: quella della effettiva “guarigione” di Edward alias Teddy alias Andrew, seguita da una finta ricaduta per farsi (coscientemente) lobotomizzare e quindi dimenticare le sue colpe.
Sta di fatto che il film ha fatto molto discutere, facendo scatenare il pubblico dell’era di internet su blog e forum appositi.
Da un punto di vista tecnico la pellicola è davvero notevole: c’è tutta la maestria di uno Scorsese ormai divenuto professore di cinema, che pennella con la folle sicurezza di un Van Gogh e l’inventiva di un Dalì.
Splendida la fotografia di Robert Richardson, a tratti dai colori estremamente (e piacevolmente) saturi, a tratti cupa e fosca, quasi dark à la Burton.
Un ossimoro che è in realtà un accostamento intelligentemente applicato all’ambientazione del New England (un’isola al largo di Boston, che in realtà non esiste, ma è ottenuta digitalmente tramite l’unione di più ambientazioni, tra cui Peddocks Island nel Boston Harbor e altre località – tra cui mi è sembrato di riconoscere anche il campus della Harvard University).
Interessante (e anch’essa inquietante) colonna sonora.
Da un punto di vista stilistico la pellicola è pressochè perfetta; ciò che non mi porta al voto massimo è il personalissimo senso di inquietudine che la sceneggiatura tratta dal soggetto di Dennis Lehane (lo stesso di Mystic River) mi ha infuso.
Il tema della follia è inquietante, nelle sue molte sfaccettature, ma qui viene esasperato, coniugandolo alle già di per sé elettrizzanti atmosfere dell’horror-thriller.
Né esce fuori un film forte… bello, assolutamente da vedere, ma estremamente forte (forse troppo).

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