Recensione su America oggi

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Short cuts / 12 Dicembre 2012 in America oggi

Per quale motivo Robert Altman ha un mercato home video così tisico in Italia? Senza la circolazione in dvd dei suoi grandi film corali, abbiamo una cultura cinematografica monca; ignoro se il problema sia la quotazione dei diritti d’autore o peggio una scellerata scelta editoriale, resta il fatto che film come Nashville e Short cuts sono pezzi da novanta, fondamentali nella loro unicità.
Non so se esiste un altro regista in grado di dare spessore vero ad una ventina di personaggi contemporaneamente, a creare una ragnatela così perfetta di intrecci. Ogni storia si collega ad un’altra mediante un’infinita gamma di scorciatoie – shortcuts – nel disegno di un un quadro complesso e armonioso. Nashville è stato un magnifico fiore selvaggio, un archetipo imperfetto – anche se talvolta l’imperfezione può risultare più affascinante – di questo strabiliante maturo mosaico di vite che è ‘Short cuts’; partendo da un soggetto minimalista per antonomasia (i racconti di Carver), Altman riesce a trasmettere allo spettatore quello straniante effetto ottico mediante il quale da vicino metti a fuoco i singoli tasselli, mentre allontanandosi solo di qualche passo prende forma una visione d’insieme. Bisogna prendersi “qualche passo” dalla visione di questo film; ti impegna le meningi anche dopo la visione, ti costringe ad afferrare le immagini che hai visto, a convogliare nel calderone mentale le frasi che hai sentito. Ti restituisce uno specchio frantumato della comunità urbana di Los Angeles (ma come ogni buona pellicola ha il dono dell’universalità, basta saper contestualizzare) con un utilizzo attento del paradosso , funzionale ad una inquietante verosimiglianza. C’è probabilmente un po’ di esagerazione nel tranquillo weekend al fiume dei tre compagnoni che non si fanno guastare la pesca dal cadavere di una ragazza, in bella (e macabra) vista sul fondale; com’era forse esagerato il canto corale “It don’t worry me” davanti al traumatico omicidio in Nashville. Per Altman la verità sembra non stare nel mezzo, ma agli estremi; la società si identifica meglio nella sua folle ed irresponsabile ricerca dell’entertainment ad ogni costo.
Emergono dalle dolenti singolarità di questo film le crisi coniugali e quelle tra amanti, dove la “scomoda” o “ingombrante” presenza dei figli esaspera le divergenze; i bambini sono presenze poco invadenti, come la timida discrezione di Casey, che investito torna diligentemenete a casa per entrare in coma, oppure genuine come il piccolo Chad che ipnotizzato dalla dolce, quasi suadente litania “tuo padre è un figlio di puttana” da parte della madre (la sempre straordinaria Frances McDormand), reagisce con un disarmante sorriso, scuotendo semplicemente il capo. O innocenti spettatori del degradante lavoro della madre, telefonista di una hot line. O ancora sono un informe gruppo di marmocchi, come i pargoli del duro poliziotto Gene Shepard (un eccezionale Tim Robbins), esserini vocianti senza la dignità di una personalità propria e distinta, che pure continuano festosi a gridare: “E’ tornato papà”.
Proprio mentre su L.A. piove il disinfestante dagli elicotteri per combattere la biblica invasione di mosche ‘medfly’ (fatto realmente accaduto nel 1989 in California), le relazioni tra coppie si fanno a dir poco avvelenate; il sesso diventa un’arma, un atto di accusa, l’arena di uno scontro senza pietà tra uomo e donna.
Anche nel dipingere la solitudine dei suoi antieroi emerge la grande vena artistica di Altman, nel catturare i momenti in cui mettono a nudo la loro disperata esistenza. La carezzevole tristezza di un locale jazz per Earl (splendidamente funereo Tom Waits), la lucida e dispettosa gelosia di Stormy (magnetico Peter Gallagher), i piccoli raptus della violoncellista Lori Singer, perfino l’angosciosa attesa di Andie MacDowell che per me ha l’espressività di una bambola di porcellana.
In un film ci sono generalmente dei ‘personaggi’, qui mi sembrano emergere più nettamente delle ‘personalità’; non è solo un giochetto di parole, secondo me il tocco registico di Altman butta realmente gli attori fuori dal confortevole nido della recitazione, pare quasi spingerli ad una sorta di outing sul ciglio di un burrone (qualche giornalista lo definì il “dittatore benigno del set”).
Con la visione di questo film adotto decisamente Robert Altman tra i miei registi preferiti, Dio l’abbia in gloria. E proverò senza dubbio a recuperarmi quanto prima la sua opera omnia.

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