Recensione su Seven

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Fincher Files / 16 Giugno 2012 in Seven

Ernest Hemingway diceva che il mondo è un posto meraviglioso e vale la pena di lottare per esso. Condivido solo la seconda parte della frase.

Ho deciso di iniziare questa analisi di Seven, thriller diretto da David Fincher, con la frase che conclude appunto il film e la serrata indagine a cui sono sottoposti i due detective. Uno, tenente, sta per andare in pensione e gli restano da “scontare” sette giorni di servizio. L’altro, giovane e ambizioso, si chiama David Mills e affianca il tenente in una indagine serrata e altamente rischiosa: Uno psicopatico uccide seguendo il rigido schema dei sette peccati capitali con una foga e una violenza atipica e anormale. Ad esempio, per simulare il peccato di gola, fa ingozzare fino alla morte un uomo obeso. In questo macabro gioco anche le vite dei due uomini di legge saranno coinvolte con conseguenze inaspettate. Probabilmente il miglior lavoro di Fincher e uno dei pilastri del cinema “nero” anni ’90, Seven è un capolavoro di tensione e suspance, che tiene col fiato sul collo, per tutti e sette i giorni della durata dell’indagine e fino alla triste scoperta dell’ultimo duplice omicidio. Il film col tempo è diventato un vero cult: anche se molte volte rischia l’approccio grottesco alla vicenda, si mantiene su uno schema ben preciso ed ha una struttura a matrioska, con i vari tasselli da sfogliare fino alla risoluzione finale, per quanto dolorosa e inaspettata. La fotografia mantiene il film sui binari dell’oscurità e del buio, dandoci l’impressione che in ogni scena domini l’effetto notte. Giocato per la maggior parte sull’introspezione psicologica e sui parallelismi tra carnefice e uomini di legge, il film si regge complessivamente sulle grandi interpretazioni di Brad Pitt, in uno dei suoi migliori ruoli e di Morgan Freeman, sempre grandioso e sul clima torbido che riesce a ricreare con grande audacia. Il film non è perfetto: forse la durata eccessiva fa perdere un po’ l’attenzione complessiva a chi guarda, che per quanto possa essere attento, in alcune scene potrebbe distrarsi. Ma alla fin fine le piccole imperfezioni contano poco di fronte ad una versione veramente cruda e drammatica come quella espressa dal film. Fincher calca anche la mano sul delicato rapporto tra Freeman e Pitt, nel quale fa capolino di tanto in tanto la moglie di quest’ultimo(una Gwyneth Paltrow funzionale in un ruolo delicato eppure mai banale): il parallelismo è evidente ed è chiaro che si vorrebbe ricreare un certo rapporto come di paternità tra i due uomini, con uno spunto di rapporto abbastanza marcato. Interessante anche la figura del serial killer: anche se potrà apparire banale la matrice pseudo religiosa del suo operato, non si può non rimanere colpiti da come la sua figura viene delineata, con cura e a volte anche con discrezione. Il film deve probabilmente qualcosa a Il silenzio degli innocenti, ma per il resto potrebbe addirittura essere elevato a vero e proprio basamento del thriller anche psicologico, e vero e proprio veicolo scolastico per i registi del nuovo millennio. David Fincher sarà conosciuto più tardi per un capolavoro come Fight Club e per un film molto intrigante come Zodiac, ma questo rimane il suo vertice cinematografico: la regia è perfetta, ha i tempi giusti e mantiene un ritmo ferreo, al cardiopalma, a tratti insostenibile. La figura che rimane maggiormente impressa nella mente insieme al serial killer è quella del tenente William Somerset. Stanco, placido, riflessivo, ossessionato dai piccoli dettagli in cui ricerca il senso di ogni cosa, è una delle figure, tra le forze dell’ordine, più importanti degli anni novanta. E poi, il film, verrà ricordato anche per il finale eclatante eppure bellissimo che non vi spoilerizzo. Ma se vi capita di ascoltare il nuovo album del cantautore pugliese Caparezza, la traccia numero 11 potrebbe farlo al posto mio.

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