De Amicis nel neorealismo / 4 Agosto 2015 in Senza pietà

Drammone oscuro, un po’ sempliciotto, efficace rappresentante di quel ramo deviato del neorealismo che sconfina con nonchalance nel melodramma di impronta popolare con afflato romantico: la Livorno del’immediato dopoguerra non è mai pienamente identificabile, la costa su cui si affaccia il porto è poco più di un cumulo di macerie intorno cui si muovono anime perse alla ricerca di soldi e cibo, i corpi e la disperazione di giovani donne sono il pasto più desiderato da malavitosi e militari.

La protagonista (una ventitreenne Carla Dal Poggio a tratti molto convincente, talora quasi spaesata) è una creatura disfatta, alla mercé della sua giovane età, del rimorso e della solitudine: impossibile non provare tenerezza nei suoi confronti e pare che tutti coloro i quali la circondano ne diventino presto consapevoli. Eppure, la sua condizione non muta, anzi peggiora inesorabilmente: soffri, soffri, colombella.
Nel complesso, quindi, il racconto suona come un racconto mensile di deamicisiana memoria, stucchevole e a suo modo moralista (apice: la Masina che, partendo, grida: “La mamma! Non ho salutato la mamma!”): peccato.

Fotografia allucinante (con spot di luci artificiali in piena notte, per esempio) di Aldo Tonti e musiche non sempre convincenti di Nino Rota (il coro a più voci del finale, forse il tentativo di richiamare l’eco di uno spiritual, è da dimenticare).

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