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Sátántangó

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Tutto e niente / 16 Marzo 2014 in Sátántangó

“..non che la vita umana abbia un così grande valore. Il mantenimento dell’ordine sembra essere affare delle autorità, ma in realtà è affare di tutti. Ordine. La libertà, al contrario, quella, non ha nulla di umano. E’ una cosa divina, e le nostre vite sono troppo brevi per poterlo comprendere adeguatamente. Se cercate un legame, pensate a Pericle. Ordine e libertà sono legate dalla passione. Si deve credere in entrambe e si soffre per entrambe. Per l’ordine e per la libertà. Ma la vita umana è piena di senso, è ricca e bella o brutta. Tutto è collegato. Solo la libertà è trattata con disdegno, sprecandola come fosse spazzatura. La gente non ama la libertà, ne ha paura. La cosa strana è che non c’è nulla di spaventoso nella libertà… l’ordine, al contrario, spesso può essere spaventoso.”

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Sette ore e non sentirle! / 25 Settembre 2013 in Sátántangó

Che dire, inquadrature dinamiche e mai scontate, adrenalinica fissità, vorticoso silenzio, esplicativo ermetismo ungherese, una diarrea di emozioni, la sorpresa dell’originalità delle scene che si montano da sole, come le mucche dei primi istanti. Rurale iperuranio, l’onore di esser partecipi della scrosciante intimità testimoniata da un’umile tinozza. Assolutamente da vedere senza quei fastidiosi e plebei sottotitoli:il semplice suono della parola guida l’intuito alla comprensione del contenuto.

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20 Aprile 2013 in Sátántangó

Sátántangó è un’epopea visiva, un’esperienza mentale davvero notevole.
Sette ore di puro ermetismo cinematografico, senza che neppure un fotogramma sembri di troppo.
Basta questo a definirlo.
Eh sì, perché sette ore di film in bianco e nero, in lingua ungherese con sottotitoli in italiano (e ancora grazie) e con non più di 150 inquadrature totali (una media di tre minuti l’una, giusto per intenderci), può sembrare una follia, di primo acchito, anche a chi nella vita ha provato di tutto (cinematograficamente parlando), a partire dai kolossal del muto da tre ore e passa.
E invece bisogna provare, per capire quanto un film di questa fattura possa regalare.
Sátántangó è un’esperienza intellettuale unica nel suo genere.

Oltre alla sua connotazione di immane folgorazione estetica, il film ha anche importanti elementi contenutistici: l’abbrutimento dei membri della fattoria collettiva, la loro decadenza spirituale e corporale è l’emblema della fine di un’epoca. Il senso di inutile attesa degli eventi è simbolo di un avvenire incerto e spaventevole.
Lo stile di Tarr si manifesta fin dall’incipit: lunghissimi piani sequenza, parecchi dei quali della durata limite di circa dieci minuti, come quello iniziale, memorabile, che presenta la fattoria o quello (doppio) del ballo nella locanda, o ancora le lunghe, silenziose camminate riprese di spalle (meravigliosa la prima di Irimiás e Petrina con il vento che spazza incessantemente la strada all’avanzare dei due).
Ma anche la carrellata in avanti sul finire del secondo capitolo è davvero strepitosa. Peccato però sia seguita a stretto giro da una con vista laterale non altrettanto efficace.
In film come questi la fotografia vale quasi quanto la regia, e quella di Gabor Medvigy é davvero di ottimo livello per quasi tutte le sette ore.
I due capitoli con protagonista il Dottore (il grande Peter Berling, che ha girato anche con Herzog e con diversi registi italiani) sono due autentici piccoli capolavori di minimalismo (il primo più del secondo). È negli episodi con protagonista il Dottore che l’estasi, la trance visiva raggiunge picchi da paralisi dei sensi.
La scena del ballo, anch’essa assolutamente memorabile, rappresenta la trasposizione dalla pittura alla settima arte de “La nave dei folli” di Hieronymus Bosch.
Le musiche dozzinali di Mihály Vig (che interpreta anche Irimiás), sia quelle per organo che quelle per fisarmonica, sono davvero efficaci in quanto perfettamente adagiate sullo stile della pellicola.
La parlata ungherese, così suadente (chi l’avrebbe detto?), dona poi ulteriore musicalità e armonia.

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