Il cyborg e la fantasia / 10 Settembre 2018 in Saibogujiman kwenchana
La giovane Cha Young-goon è convinta di essere un cyborg. Per questo motivo, un giorno, mentre lavora in fabbrica, cerca di ricaricare le proprie batterie inserendosi dei fili elettrici nel polso. Ma l’operazione prevedibilmente finisce malissimo, e viene presa (non a torto) per un tentato suicidio; così Cha Young-goon si trova rinchiusa in un reparto psichiatrico. Stessa sorte subita dalla nonna adorata, la quale tempo addietro aveva iniziato a credere di essere un topo. Nell’ospedale, Cha Young-goon conversa con le luci al neon o col distributore automatico di bevande; conosce altri pazienti affetti dai disturbi più bizzarri, come il bel Park Il-sun, schizofrenico e antisociale; ed è assolutamente determinata a restituire alla nonna la sua dentiera dimenticata a casa.
Mai il gioco della follia è stato messo in scena con più brillante estrosità, e con più delicatezza, lontano da qualsivoglia tentazione retorica o intellettuale.
Park Chan-wook, regista sudcoreano noto in occidente grazie alla sua “trilogia della vendetta” (“Mr. Vendetta”, 2002; “Old Boy”, 2003; “Lady Vendetta”, 2005), firma qui un’opera esplosiva e senza eguali, vincitrice del Alfred Bauer Award al Festival di Berlino 2006. La malattia mentale, la solitudine del diverso e la sua riconciliazione col mondo, il perdono e il superamento della colpa, la ricerca del senso chiarificatore posto dietro l’esistenza – innegabilmente questi temi alimentano la storia. Eppure non è su di essi che si focalizza l’attenzione critica del regista, il quale abdica alla funzione di analista, o peggio ancora, di razionalista, sottraendosi al compito di valutare le implicazioni morali o sociali del contesto manicomiale. Park Chan-wook, piuttosto, sfrutta il pretesto narrativo per raffigurare un microcosmo dal tono bizzarro, ironico e surreale; egli non desidera altro che dare consistenza ai sogni dei malati, queste creature spaesate, questi poeti ingenui, i cui giochi (e traumi) infantili, secondo la lezione freudiana, non hanno mai cessato di formicolare e di rinnovarsi mediante la fantasia; egli vuole anzi dimostrare che tali giochi e tali sogni, sospinti da un’iniziale anarchia, possono connettersi tra loro, e magari completarsi a vicenda in uno stadio di pace e quiescenza simile alla guarigione, senza troppe intromissioni da parte della realtà.
Se la vicenda segue un percorso evolutivo abbastanza tradizionale, la natura postmoderna dell’opera emerge invece dai riferimenti e dalle citazioni intelligentemente rielaborate. Nella sua struttura si è frullata una ricca serie di ingredienti: non solo la dinamica sanitaria presente in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman, ma anche gran parte della visionarietà di Terry Gilliam (“Brazil”, “La leggenda del re pescatore”, “Tideland”); poi qualche spunto formale tratto da “Il favoloso mondo di Amélie”, e persino dall’immaginario di Wes Anderson, insieme alla leggerezza fiabesca, tipicamente orientale, di un Miyazaki; né mancano gli omaggi ad altri anime o videogiochi. Si può inoltre cogliere, a partire dal titolo, un riferimento all’automazione femminile nelle sue molteplici declinazioni letterarie, fumettistiche e cinematografiche: da Olimpia, la bambola meccanica di Hoffmann, passando per la falsa Maria di “Metropolis”, sino alla Rachael di “Blade Runner” e a Motoko Kusanagi di “Ghost in the Shell”. Al resto provvede la prolifica fantasia di Park Chan-wook, sorretta da un assoluto controllo registico. L’atomismo dei personaggi, (iper)attivi nella loro contorta ma instancabile vitalità spirituale, consente infatti di inanellare una serie di sequenze sempre aperte al virtuosismo e alla più energica sperimentazione. Il merito va riconosciuto tanto agli attori, ben aderenti ai propri ruoli sgangherati, quanto al complessivo reparto tecnico. Da lodare in particolar modo il montaggio vivace; la fotografia vivida di colori, con predominanza di bianchi laddove prevale l’algida realtà ospedaliera; e le musiche disposte in piena sintonia, anche spassosa, con il carnevale psichiatrico a cui assistiamo meravigliosamente conquistati.