Sempre più belli e dannati. / 19 Giugno 2012 in L'amore che resta
Applicare la teoria di Belli e dannati alle implosioni sorde di Elephant, il tutto unito ai silenzi profondi e profondamente persi di Paranoid Park. E’ questo l’ingrato compito riservato a Gus Van Sant, regista che con il suo straordinario occhio alla modernità, riesce sempre a stupire anche chi, di solito, non lo segue. Gli adolescenti spaesati che come al solito cerca di ricreare, sono singolari nel loro essere simile e nel loro esporsi a poco a poco. Non esiste un lieto fine possibile, tra le lacrime, il dolore e la grande passione donata da Van Sant nel realizzarsi e nel ritornare ai suoi livelli. La storia dei due adolescenti Enoch, sociopatico con una forma di fanatismo per la morte e Annabelle, ragazzina malata terminale con poche illusioni e tante preoccupazioni, viene trattata con autorevolezza e singolare tatto, da uno dei registi più bravi dell’ era hollywoodiana contemporanea. L’amore che resta è un acuto melodramma giocato sul filo sottile che collega l’amore e la morte. L’amore è un gioco di specchi: finchè non si trova l’anima gemella tocca girare a vuoto, senza combinare nulla. La morte non è solo catartica, risolutiva, ma è anche beneaugurante. Enoch incontra Annabelle in una celebrazione di essa, un funerale dove quello è solito imbucarsi, senza un motivo preciso. Una delle due forze appena citate dovrà vincere sull’altra, lasciando però un vuoto dentro questi. Paragonato a più riprese ad un’altra opera del regista, in cui si aveva anche un countdown preciso e si sapeva come sarebbe finito tutto(Last Days, of course), forse erroneamente, questo è il film più maturo di Van Sant, un capolavoro di immagini, ritmo, colori, in cui il tutto si fonde in una giostra incredibile, in cui sovviene il tempo e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei(bisogna sempre capir chi sia questa lei, di leopardiana memoria), e poi tutto risorge, trema e si spegne. Una poesia può essere paragonata ad un film? In questo caso probabilmente si. Van Sant, regista da sempre attento alle pulsioni e alle nevrosi, dovute al disagio, dei suoi esasperanti teenagers, dirige con grande stile una delle esperienze più gradite dell’anno. Presentato a Cannes 2011, clamorosamente nella sezione Un certain regard , anziché in quella principale, rappresenta un nuovo traguardo per il regista. In questo, più che in altri film del regista, si scorge la sua immensa passione per la vita: sia essa bella, brutta, inutile, dolorosa, futile, impossibile, felicissima o devastante, vale la pena viverla. Se Van Sant, preso dalla sua solita grande euforia, si fosse accorto che la storia che aveva in mano sarebbe potuta diventare veramente qualcosa più di un semplice cult per gli appassionati, probabilmente non avremmo mai avuto questo splendido L’amore che resta. E invece eccola qui l’ultima creatura dell’americano: Lontano da ogni commercializzazione, torna a far danzare in una macabra e grandiosa ballata, dolorosa e pura, i suoi abbandonati personaggi, malinconici e abbandonati all’avvenire, con la solita grande morte negli occhi, ma con la voglia di vivere fino in fondo questa grande avventura che è la loro vita. I due adolescente ritratti sono ognuno di noi, e anche il personaggio del fantasma kamikaze, eterno amico ed eterno rivale, riesce a farsi beffe del fardello di vivere. Il film scorre fluidamente e diventa anche divertente, pur essendo sempre melodioso e beffardo. Come il destino, come la vita. Se non ci credete chiedetelo a Annabelle e Enoch.

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