Recensione su Repulsion

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Il buio nella mente / 28 Aprile 2014 in Repulsion

Dalla barca de “Il coltello nell’acqua” (1962) fino al teatro di “Venere in pelliccia” (2013), passando per l’abitazione di “Repulsion” (1965), il castello di “Cul-de-sac” (1966), il maniero di “Per favore non mordermi sul collo” (1967), lo stabile di “Rosemary’s Baby” (1968), il palazzo di “L’inquilino del terzo piano” (1976), la nave da crociera di “Luna di fiele” (1992), il cottage di “La morte e la fanciulla” (1994) e l’appartamento di “Carnage” (2011), Roman Polanski, classe 1933, nel corso della sua lunga e gloriosa carriera ha ampiamente dimostrato di essere perfettamente a suo agio nei set claustrofobici.
E conoscendo questa sua predilezione per gli spazi chiusi, aumenta il rammarico per il fatto che egli non abbia mai ricavato una trasposizione cinematografica da “La metamorfosi” di Franz Kafka. Pensate un po’ a che film poteva uscire dal geniale testo dell’autore praghese, soprattutto se Polanski lo avesse realizzato nel suo periodo di forma migliore, ossia negli anni Sessanta e Settanta. Probabilmente ne sarebbe venuto fuori un capolavoro, o giù di lì.
“Repulsion” è il secondo lungometraggio del regista polacco (il primo era “Il coltello nell’acqua”, uno degli esordi più fulminanti di tutti i tempi), e racconta l’inquietante storia di una giovane e affascinante estetista belga, Carol Ledoux (Catherine Deneuve), che soffre di dissociazione mentale e che risiede a Londra in un appartamento in affitto insieme alla sorella maggiore, Helen (Yvonne Furneaux), la quale ha una relazione sentimentale con un uomo sposato, Michael (Ian Hendry). Quando questi ultimi due decidono di andare in vacanza in Italia per una decina di giorni, Carol rimane a casa da sola, e la solitudine acuisce la sua schizofrenia a tal punto da farla sprofondare nella follia più totale.
Fin dal folgorante incipit, in cui la cinepresa inquadra in primo piano l’occhio della Deneuve su cui compaiono i titoli di testa, con la scritta “Directed by Roman Polanski” che simula il taglio del bulbo oculare dell’attrice francese (un evidente omaggio alla celeberrima sequenza di apertura di “Un chien andalou”, 1929) con un movimento orizzontale da destra verso sinistra, capiamo due cose: la prima è che ci troviamo di fronte a un film superbo; la seconda è che Carol, quando l’inquadratura si allarga e vediamo il suo viso per intero, ha qualcosa che non va. Quel suo sguardo perso nel vuoto, infatti, non fa presagire nulla di buono, e nel giro di circa cento minuti avremo la conferma che avevamo ragione a sospettare che dietro agli occhi spenti della ragazza si celasse qualcosa di preoccupante.
In trasferta in Inghilterra, Polanski (che oltre a sceneggiare a quattro mani con Gérard Brach appare brevemente nelle vesti di un suonatore di cucchiai) tratteggia un ritratto scioccante di una donna schizofrenica che odia gli uomini fino alla repulsione (da qui il titolo del film), e grazie alla straordinaria mobilità della macchina da presa, che si muove sempre sicura, dimostra come si possa fare cinema di altissimo livello all’interno di un appartamento, e quando si sofferma sul volto catatonico di Carol, è come se ci invitasse a penetrare negli oscuri meandri della mente malata della protagonista, la quale soffre di terribili allucinazioni (si immagina che le crepe squarcino i muri della sua casa e che dalle pareti escano delle braccia umane) e improvvisi attacchi di catalessi (come quando, nel memorabile inizio, fissa un punto indefinito davanti a sé tenendo nella sua mano quella di una cliente del centro estetico per cui lavora).
La fotografia in bianco e nero di Gilbert Taylor crea un’atmosfera minacciosa, ben sottolineata dalle musiche di Chico Hamilton, e Catherine Deneuve, che interpreta con notevole intensità un ruolo complesso e sfaccettato, non è mai (più) stata così brava e convincente, nemmeno quando ha lavorato con quel genio di Luis Buñuel in “Bella di giorno” (1967) e in “Tristana” (1970). Sospeso tra realtà e immaginazione, attraversato da una tensione costante e pervaso da una profonda inquietudine, “Repulsion” (vincitore, nel 1965, dell’Orso d’argento al Festival di Berlino) è un film macabro e disturbante, ricco di momenti agghiaccianti (ne citiamo uno per tutti: l’omicidio compiuto a colpi di rasoio), che oscilla magistralmente tra il thriller e l’horror e che, mediante un crescendo drammatico esemplare, avviluppa lo spettatore in un vortice senza via d’uscita.
Le scene indimenticabili sono tante, elencarle tutte sarebbe noioso, perciò ci limitiamo a ricordare quella in cui Carol parla con una sua collega che le dice di essersi divertita un mondo a vedere al cinema un film diretto e interpretato da Charlie Chaplin in cui quest’ultimo aveva talmente tanta fame da mangiare una scarpa, e in cui c’era un omone grande e grosso, anch’egli terribilmente affamato, che scambiava Charlot per una gallina (nella scena in questione il titolo del film di Chaplin non viene menzionato, ma è superfluo dire che si tratta di “La febbre dell’oro”, 1925).
E’ probabile che Robert Altman si sia ispirato a questo magnifico film di Polanski quando, nel 1972, ha girato “Images”, un eccellente thriller psicologico con venature fantasy e horror che narra una vicenda per certi versi analoga a quella di “Repulsion”, così come è probabile che lo Stephen King di “Shining”, nel 1977, abbia preso dal suddetto film di Altman l’idea di ambientare in un luogo isolato (nel caso del romanziere un hotel, in quello del cineasta una casa di campagna) una storia che racconta di una graduale discesa nella paranoia.
E per chiudere il cerchio delle somiglianze, la prodigiosa pellicola che Stanley Kubrick, nel 1980, ha tratto dal romanzo dello scrittore di Portland si conclude con una scena molto simile a quella con cui termina “Repulsion”. Com’è che diceva Pablo Picasso? “I mediocri imitano, i geni copiano”.

13 commenti

  1. paolodelventosoest / 25 Marzo 2015

    Ottima recensione, ricca di spunti. Lo guarderò a breve, solleticato anche da quel tuo accenno a ‘Images’ del mio amatissimo Altman, opera che finora avevo scartato a priori. Dopo aver visto ‘Il coltello nell’acqua’ sono incuriosito da Polanski e intendo ripercorrere i suoi film, alcuni mai visti altri visti eoni fa di cui conservo pallido ricordo (ad es. Chinatown)

    • Stefania / 25 Marzo 2015

      @paolodelventosoest: Polanski merita, merita (quasi) sempre. Chinatown è una bella parabola sul Male mascherata da noir, con metafore sul possesso e la brama di divinità dell’uomo. Il coltello nell’acqua mi manca, ma è nella lista dei film per la rubrica “acquatica”, quindi spero di recuperarlo a breve.

    • schizoidman / 26 Marzo 2015

      @paolodelventosoest: “Repulsion” è un film inquietante che trasmette un’angoscia insostenibile. Per me, è uno dei lavori migliori di Roman Polanski. Lo stesso vale per “Il coltello nell’acqua” e “Chinatown”. Per quanto riguarda “Images”, a mio avviso è un ottimo thriller, uno dei film più originali e sottovalutati del grande Robert Altman.

      • paolodelventosoest / 27 Marzo 2015

        @schizoidman già, angoscia insostenibile è proprio il termine esatto… ho scoperto di essere forse un po’ troppo sensibile a queste atmosfere cupe, a questa meticolosa al punto di essere subdola gestione del sonoro… ti dirò che ho vissuto le scene più “forti”, quelle in cui il crescendo scandito dai piatti della batteria coincideva con il pathos dell’aggressione, quasi come una liberazione! Il peso di questa pellicola infatti si basa sull’ovattata paraonoia, e questo lo trovo altamente inquietante.

        • Stefania / 27 Marzo 2015

          @paolodelventosoest: ha avuto la capacità di scuoterti così profondamente e… gli hai dato solo 6? 😉

          • paolodelventosoest / 27 Marzo 2015

            In situazioni come queste, dare un voto mi lascia imbarazzato. Generalmente, lascio il 6 ai film che non ho amato, ma di cui non posso mettere in discussione oggettivamente il valore.

        • schizoidman / 27 Marzo 2015

          @paolodelventosoest: Roman Polanski è un maestro nel creare angoscia. “L’inquilino del terzo piano” e “Rosemary’s Baby”, forse, sono ancora più angoscianti di “Repulsion”. In questi tre film, il regista polacco immerge lo spettatore in un’atmosfera cupa e inquietante che non lascia scampo. Certo, non sono film che si guardano a cuor leggero, ma se si amano le atmosfere angoscianti, il Polanski degli anni Sessanta e Settanta è insuperabile.

          • Stefania / 27 Marzo 2015

            @schizoidman: confermo e sottoscrivo. Apprezzo tantissimo, in questo trittico, l’alone di indecifrabilità che lascia sempre aleggiare sul finale. Un tratto che ho ritrovato con piacere anche ne La morte e la fanciulla.

  2. Bisturi / 28 Marzo 2015

    Film bellissimo, particolarmente ispirato alla ‘Nouvelle Vague’, una libertà espressiva ed artistica ai massimi storici per il buon Plolanski che si crogiola in un bianco e nero fantastico, espressionista, avvolgente e poi c’è la Denevue, fragile e bellissima. Da vedere a tutti i costi, fondamentale, cinema d’epoca, da ‘cantina’, più invecchia e più migliora…

  3. schizoidman / 28 Marzo 2015

    @stefania: “La morte e la fanciulla” l’ho visto un bel po’ di anni fa, ricordo che mi era piaciuto molto, ma ho dimenticato come finisce. Ricordo benissimo, invece, nonostante siano passati tanti anni, sia il finale di “L’inquilino del terzo piano” sia quello di “Rosemary’s Baby”. Se penso alle scene con cui si concludono questi due ultimi film, mi vengono ancora i brividi. Credo che l’urlo di “L’inquilino del terzo piano” non lo scorderò mai.

    • Stefania / 29 Marzo 2015

      @schizoidman: sia nel caso di Rosemary’s Baby che de L’inquilino…, ho letto i romanzi da cui sono stati tratti dopo aver visto entrambi i film, per tentare di comprenderne meglio i finali. L’indeterminatezza di Polanski è magistrale, i suoi finali aperti sono strepitosi: per quanto siano notevoli anche i romanzi di cui ha curato l’adattamento cinematografico, il fatto di lasciare nell’indeterminatezza lo spettatore (cosa che nei libri è decisamente meno palese, in particolare in quello di Ira Levin) è un gioco intellettuale perverso che, masochisticamente, mi piace, perché non lascia che l’atmosfera perturbante della storia si esaurisca con l’ultimo fotogramma del film .
      E, ne La morte e la fanciulla, questa tortura (è il caso, ahimé, di dirlo) è quantomai lampante 😉

      • schizoidman / 29 Marzo 2015

        @Stefania: purtroppo non ho letto i romanzi da cui Roman Polanski ha ricavato “L’inquilino del terzo piano” e “Rosemary’s Baby”, quindi non posso fare un confronto tra i testi letterari e le relative trasposizioni cinematografiche. Per quanto riguarda i finali aperti del regista polacco, sono d’accordo con te nel definirli “strepitosi”. Tanti registi dovrebbero imparare da Polanski: mi riferisco a quelli che, quando realizzano un film che si basa su qualcosa di misterioso, hanno l’abitudine di creare un finale che dà una spiegazione al mistero, togliendo così allo spettatore la possibilità di immaginare cosa possa essere successo. Secondo me, è meglio un finale aperto invece di uno che spiega tutto, anche perché spesso la spiegazione si rivela deludente.

  4. schizoidman / 28 Marzo 2015

    @Bisturi: condivido pienamente il tuo pensiero. All’epoca Polanski era in grande forma, la sua inventiva registica era impressionante. La cosa incredibile è che a Polanski “Repulsion” non piace! Per me, invece, è uno dei suoi film migliori. Un thriller inquietante che regge benissmo alla prova del tempo.

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