Il West metaforico. / 3 Giugno 2014 in Rancho Notorious

(Sette stelline e mezza)

Film pacchiano e di cartone, ma appassionante, pieno di ritmo, di emozioni e di echi narrativi.
Lang sfrutta all’osso i pochi mezzi economici postigli a disposizione dal suo produttore (nientemeno che Hughes) e, da eccellente “mestierante” del cinema qual è, cava dal cilindro un’epopea ambientata nel selvaggio West, dove sono le colt a farla da padrone, ma che potrebbe svolgersi nell’antica Grecia, in Aquitania o nel 2083, tanto sono universali e privi di dimensione temporale gli argomenti trattati, eros e thanatos su tutti.

La suddivisione del racconto in capitoli ben definiti, intervallati da una ballata che sottolinea i bivi fondamentali della vicenda, è desunta direttamente dalla tradizione orale mondiale.
Il luogo su cui si impernia la vicenda è un ranch di cui solo pochi eletti conoscono l’esistenza ed il nome, alla pari di un Eldorado malavitoso o di una città costruita tra nuvole e cielo, come quella raccontata da Aristofane.
Il silenzio a cui i servi sono costretti, il fatto che Altar imponga il divieto sulle domande di qualsivoglia natura e che ella non ripete due volte lo stesso concetto, pena l’allontanamento dal ranch, la scaltrezza con cui Vern indaga e giunge alla verità sono elementi che hanno il sapore delle prove superate da Ulisse o da Perseo.
E così via.

Quando si parla di “western europeo”, tipico, per esempio, dei film di genere di Leone, credo si intenda proprio questa visione metaforica della Frontiera, in cui il West è un luogo metafisico e non reale, e nel quale, come in questo caso, riecheggia il mito ancestrale di vicende millenarie.
In questo senso, per quanto ridondante ed esagerato nelle forme, esaltate da un technicolor caciarone, dal gusto quasi circense, Rancho Notorious è un film pienamente riuscito, avvincente benché (paradossalmente) noto e prevedibile nelle premesse, nello sviluppo e nell’esito.

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