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Ragtime

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Corsi e ricorsi… / 9 Luglio 2016 in Ragtime

È incredibile come certi film – e in generale certe storie – siano intrisi di situazioni la cui attualità emerge costantemente, anche a diversi decenni di distanza.
In questi giorni in cui negli USA scoppia un nuovo – l’ennesimo – incidente di taglio razziale (poliziotti che sparano a gente di colore, con questi ultimi che si vendicano sparando ad agenti bianchi), un film come Ragtime – che parla proprio di questi temi, ancorché ambientandoli oltre un secolo fa – ci fa cozzare contro l’inesorabilità di certe questioni, che sembrano immanenti alla natura (o, per meglio dire, alla stupidità) umana: nonostante il progresso nei diritti civili, nonostante il fatto che il primo uomo di colore si appresti a concludere un doppio mandato alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
Film complesso ma estremamente affascinante, strutturato su molteplici livelli narrativi (come il libro di Doctorow da cui è tratto), Ragtime è un affresco degli Stati Uniti degli anni Dieci, che anche nel civilissimo Stato di New York, ospitava ancora una società fortemente razzista.
Personaggi di finzione o realmente esistiti si susseguono in un intreccio a spirale che inizialmente può confondere, per poi mostrarsi in tutto il suo fascino corale.
Come, ad esempio, per la vicenda sentimentale (reale e finita in tragedia) del trio composto dalla ballerina Evelyn Nesbit (la McGovern, protagonista di una scena di nudo prolungato) Henry Kendall Thaw e Stanford White (interpretato dallo scrittore Norman Mailer).
La regia di Forman è controllatissima ma la vera forza di quest’opera è innegabilmente la sceneggiatura di Michael Weller tratta, per l’appunto, da Doctorow.
A oltre ottant’anni di età il mitico James Cagney (il De Niro della prima metà del Novecento) torna sul grande schermo, dopo una lunga assenza, in un ruolo che tuttavia dimostra quanto le abilità recitative dei grandissimi non siano destinate a tramontare, a dispetto dell’età.
Incetta di nomination agli Oscar del 1982, senza vincere nemmeno una statuetta.
Lo splendido, malinconico main theme della colonna sonora di Randy Newman completa il quadro di un’opera incomprensibilmente dimenticata in Italia.

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C’era una volta a New York / 6 Maggio 2016 in Ragtime

Ho molto amato il romanzo di Doctorow, il più grande maestro del romanzo storico americano. Ma qui sono rimasto addirittura estasiato dalla realizzazione cinematografica di Forman; alla base c’è l’ adattamento intelligente di Michael Weller, che ha scelto di trattare una parte delle storie contenute del libro, consapevole di non poter sbrogliare l’intera matassa, ma poi c’è una ricostruzione storica sublime, dalle scenografie di Graysmark & Co. ai costumi di Anna Hill Johnstone (già nominata agli Oscar per Il Padrino). La regia di Forman è orizzontalmente al servizio di questa epifania estetica, precisa e gustosamente di maniera (consapevolmente di maniera, direi, in linea con il sapore del tempo), un tocco d’autore che si riconosce anche nel casting perfetto: indimenticabile la performance del poco noto Howard E. Rollins jr., miracolosa prova di Elizabeth McGovern (che non apprezzai quasi per nulla in ‘C’era una volta in America’ di Leone!) capace di dare spessore a una difficile sequenza di dialogo, nuda e ubriaca davanti a tre impettiti gentiluomini; grandioso ritorno sulle scene dopo vent’anni di inattività per James Cagney, che dimostrò di non aver perduto un solo grammo di stoffa, superbo Kenneth McMillan zotico e bolso pompiere razzista. Ma sono tanti i personaggi che restano impressi con le sequenze che li incorniciano (il ritrattista Tateh e la sua scenata di gelosia yiddish in una strada affollata), c’è l’esordio di Samuel L. Jackson nei panni – guarda un po’ – di un gangster in erba, c’è l’ottimo Brad Dourif (tra i protagonisti della mia amata serie Deadwood), tutto parla di un film corale magnifico eppure scandalosamente dimenticato, di cui manca ad oggi una edizione italiana decente.

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