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Radio Days

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Rockwell e Gil Elvgren sul grande schermo / 6 Giugno 2017 in Radio Days

Un Allen oso dire morigerato: la costruzione delle sequenze-chiave e del pathos (suona un po’ strano parlarne a proposito di Woody, eh? Eppure… Le intense emozioni sono parte viva di molti suoi lavori, a pensarci bene) è cesellata con singolare delicatezza.
Risulta evidente che la cornice scelta è carissima al suo cuore e alla sua memoria e il cineasta newyorkese si muove come se camminasse su gusci d’uovo, perché intende offrirne al pubblico la miglior rappresentazione possibile.

Ecco, allora, che il supporto estetico principale, i migliori riferimenti a cui affidarsi, sono, in primis, Norman Rockwell, l’illustratore americano rooseveltiano per eccellenza, e, poi, Gil Elvgren, il re delle pin up, colui che, tra un boccolo malizioso e un seno tornito, ha descritto con dovizia di piccoli particolari il “colore” di un’epoca, i cambiamenti estetici di una società in progressione.
Se Rockwell è l’apice dell’illustrazione “domestica”, rassicurante e iperreale, usata da Allen per rappresentare gli ambienti casalinghi e il quartiere della famiglia protagonista, Elvgren lo è di quella sessuale, dello svago e del divertimento.
Muovendosi tra i due perni estetici citati, il film di Allen, incentrato non troppo parzialmente sull’educazione alla vita e alla sua bellezza (la musica! L’arte del racconto!) di un ragazzino newyorkese, cresciuto all’inizio degli anni Quaranta, incede tra innocenza e malizia, tra scampoli lontani di Depressione e New Deal, tra lazzi e Pearl Harbour, divertendosi follemente ad attingere a piene mani dal repertorio iconografico citato e da quello dell’aggressivo Art Déco richiamato dai finti quadri della de Lempicka che campeggiano in soggiorno e dai fantasmagorici costumi femminili (l’incredibile cappello verde indossato da Dienne Wiest!) disegnati da Jeffrey Kurland.
La fotografia di Carlo Di Palma fa il resto, rendendo bene l’effetto pittorico (appunto) dei colori (rosso, bianco e verde, in particolare), esaltando gli splendidi chiaroscuri terrosi dei citati interni domestici.

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I giorni della radio / 6 Ottobre 2015 in Radio Days

Delicatamente nostalgico.
Un Woody insolito, o forse no. Questo richiamo ai piaceri d’antan, del resto, ritorna spesso nelle sue pellicole (da ultimo, con il bellissimo Midnight in Paris).
Manca forse quell’umorismo sagace a cui ha abituato il regista newyorkese, anche se in Radio Days il film prende da subito un’altra piega e la cosa è abbastanza evidente. O forse non proprio da subito, perché l’incipit con i ladri che rispondono alla telefonata mentre stanno derubando un appartamento è davvero irresistibile, e sta lì, di diritto, nella mia top 5 delle più divertenti scene tratte dai film alleniani.
Dopo questo inizio spumeggiante, il film, come detto, vira decisamente verso il filone nostalgico, alternando una storia di gente comune ed una storia di esponenti dell’alta borghesia (sennò non sarebbe Woody) nei “giorni della radio”, gli anni immediatamente prima e durante il secondo conflitto mondiale: da un lato la variopinta famiglia ebrea del Queens, per cui la radio diventa quasi una componente della famiglia, un qualcosa a cui stringersi intorno, ciascuno con le proprie preferenze, ciascuno con i suoi momenti; dall’altro la high society newyorkese che invece di quella stessa radio è protagonista diretta (i coniugi altolocati che raccontano a colazione, in un’apposita trasmissione, le loro serate mondane).
Ma in quell’alta borghesia decadente c’è anche chi riesce ad inserirsi dal di fuori, come Sally White, ingenua venditrice di sigari con il sogno di far breccia nel mondo dello spettacolo.

Grande protagonista è dunque la radio, principale mezzo di intrattenimento dell’epoca, capace di tenere unito un popolo, nei momenti buoni e in quelli drammatici: è la radio con cui Orson Welles propose il celebre scherzo dell’invasione aliena (citato nel film), a cui in molti credettero per davvero; la radio con cui venne annunciato il bombardamento di Pearl Harbour, che causò l’intervento americano nel secondo conflitto mondiale; la radio con cui le famiglie seguivano la guerra, per loro così distante; la radio attorno alla quale si strinsero gli americani per assistere al lungo e purtroppo fallito tentativo di salvataggio di una bimba caduta in un pozzo.
Quest’ultimo episodio, in particolare, è sceneggiato in modo molto suggestivo e risulta assai toccante, considerata anche la sua somiglianza con la vicenda italiana di Alfredino, il bambino romano caduto nel pozzo artesiano agli inizi degli anni ’80, che tenne con il fiato sospeso l’Italia intera, vista la copertura che fece la Rai del tentativo di salvataggio (purtroppo non andato a buon fine, anche in quel caso).
C’è un po’ di Fellini in questo Radio Days: un Amarcord in salsa americana, in cui però prevale la commedia. Del resto Woody Allen ammirava il nostro Federico e spesso si ispirava ai registi che considerava suoi Maestri, come ad esempio Bergman.
Film memorabile, infine, per la presenza contemporanea delle due storiche compagne di Woody, Mia Farrow e Diane Keaton, oltre che per la splendida colonna sonora.

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Il film che più amo / 3 Settembre 2012 in Radio Days

Non c’è niente da fare, quando sento quelle note di September song, e la telecamera lascia sullo sfondo le onde scure della spiaggia e fa una carrellata lungo i caseggiati rosso scuro sotto la pioggia, il mio cuore si gonfia di meravigliosa malinconia. Questo è il film più bello, dolce e poetico che io abbia mai visto, con una colonna sonora immortale, perfetta elegia di un’epoca sognante.
I colori sgargianti di abiti, arredi, insegne e réclame, il calore di un focolare domestico nell’irresistibile humour di una strampalata famiglia ebrea, la formazione di un pel di carota dai tratti alleniani in un’America in canottiera, mentre un’altra America, in frac, si affaccia alla vertiginosa terrazza di una tarda bélle epoque in lenta marcescenza, col flute in mano e l’ermellino al collo. Quarta volta che lo vedo, quarto dieci e lode che gli dò con gioia e profonda gratitudine. My beloved.

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