ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
(Vaneggiamenti sparsi)
Ho riso a denti stretti, guardando Parasite, come, molto probabilmente, avrei fatto guardando per una volta ancora le disavventure di un Manfredi, un Sordi o un Gassman in una buona commedia all’italiana che fu. In questo film sudcoreano, c’è il familiare ingegno del povero/del disagiato dal cervello fine e lo stomaco vuoto della tradizione letteraria e della commedia dell’Arte italiana.
Nel film Palma d’Oro a Cannes 2019, in sostanza, c’è la grottesca rappresentazione della tragicommedia che fonda la guerra tra poveri, l’humus su cui proliferano persone (consapevoli o “ignare”) come quelle che vivono nella super casa dell’archistar.
Ma il film non mi ha convinta appieno. Pur mettendo in scena con eccellenti capacità tecniche il palese divario socioeconomico in cui siamo immersi fino al collo (proprio come Ki-taek, il capofamiglia “povero”, quando tenta di recuperare qualcosa nel seminterrato allagato dall’acqua delle fogne), Bong Joon-ho non mi ha detto niente di nuovo che non sia stato rappresentato con altrettanta forza ed eleganza visiva da altri autori contemporanei. Per esempio, nonostante le premesse siano diverse, Parasite mi ha ricordato molto il cinema di Lanthimos, in particolare Il sacrificio del cervo sacro. Anche qui, un agente endemico si insinua in un contesto famigliare. Ci sono debite differenze, tra i due film, eppure, visto il tema comune e il costante ed esplicito richiamo all’uso della metafora, mi ritrovo a dire che, a suo tempo, sono rimasta molto più turbata dal lavoro di Lanthimos che da quello di Bong Joon-ho.
Probabilmente, nel film sudcoreano, mi aspettavo una deflagrazione ancora più potente di quella vista nel finale, un minor didascalismo nella rappresentazione del conflitto umano e delle classi sociali (es. la puzza di povertà è impossibile da togliere; a chi vengono prospettate urgenti cure mediche, tra la ragazza gravemente ferita -una dipendente- e il bambino colpito da un attacco epilettico -il figlio del “padrone”? Ecc.).
A livello narrativo, probabilmente, mi aspettavo (limite mio) una maggiore influenza della presenza dei Kim in casa dei Park. Intendo dire: gli “intrusi” non cambiano di un millimetro gli equilibri della famiglia ospite (finale a parte). Non c’è un’evoluzione dello status quo famigliare. A un certo punto, ho immaginato che i Kim avrebbero impedito ai Park di rientrare in casa o che, non so bene come, avrebbero finito per sostituirsi a loro, una specie di La cosa o L’invasione degli ultracorpi in versione sudcoreana, ma senza gli elementi splatter.
Altra mia fantasia: al di là dell’uso pedissequo della pioggia torrenziale che è bella, atmosferica, affascinante per chi sta all’asciutto in una casa confortevole e, al contrario, trasforma in ratti pronti a morire affogati chi abita nei quartieri poveri e sovraffollati, dove esplodono i tombini otturati dalla spazzatura, credevo che l’acquazzone avrebbe influito sullo sviluppo del racconto, creando problemi nel seminterrato, portando letteralmente a galla i segreti della casa, ecc.
A latere, non sono proprio riuscita a capire qual è il significato simbolico della roccia di cui Ki-woo non vuole liberarsi. Per esempio, perché la porta con se nel seminterrato, combinando un guaio, tanto per cambiare? Non credo che avesse intenzione di uccidere i primi “parassiti”.
Nota: credo che, perlomeno nella versione italiana, ci sia stato un errore di doppiaggio (se non addirittura di montaggio, a monte), non so, chiedo conferma. Ben prima che la padrona di casa, Yeon-kyo, racconti del fantasma visto da Da-song, la nuova governante, mamma-Kim, scoprendo l’uomo nascosto nel seminterrato, dice: “Ecco chi aveva visto Da-song”. Ma, a quel punto del film, non si era mai parlato di un uomo che, di nascosto, emergeva dalle viscere della casa, alla ricerca di cibo, allucinato e spaventoso, proprio come uno spirito impossessatosi della casa.
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