Recensione su Nomadland

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Il costo della libertà / 7 Maggio 2021 in Nomadland

Ibrido felice tra film drammatico e documentario – la maggior parte degli attori interpretano se stessi, o versioni leggermente alterate di se stessi – Nomadland è prima di tutto la storia di Fern, il ruolo che ha fatto entrare Frances McDormand nell’empireo degli Academy Awards (terza persona nella storia a vincere almeno tre Oscar come protagonista).
Ingegnosa – sembra a suo agio in ognuno dei cento lavori che fa per sopravvivere – ma del tutto priva di malizia; mai vinta, sempre un passo davanti alla disperazione: quando festeggia da sola la fine dell’anno è il cuore dello spettatore a sanguinare piuttosto che il suo. Fern ha scelto consapevolmente la solitudine, con la sua estrema riluttanza a stabilire legami stretti (il cane, Dave); la vediamo spesso inquadrata da sola in qualche vasta distesa deserta. Ma è anche perennemente amichevole, scherzosa, capace di empatia. McDormand accompagna queste contraddizioni con la sua espressione sempre un po’ perplessa, concentrata, che oscilla tra il pianto e il sorriso.

Ma Nomadland è anche un resoconto della vita degli Americani che hanno scelto di vivere ai margini della società nei loro furgoni e roulotte. Questo non è un film di denuncia – lo sfruttamento è più intuito dallo spettatore che mostrato – ma non è neanche un’esaltazione romantica di uno stile di vita, le cui indegnità e limitazioni sono tutte ben visibili. La scelta della libertà ha un costo alto; e la presenza della morte è una costante nel film, come se una vita ridotta all’essenziale la portasse prepotentemente in primo piano. Ma ciò che fa l’originalità e la forza del film è anche ciò che rende debole una società: l’assenza, anzi l’impossibilità di un’azione collettiva, al di là della solidarietà passiva del gruppo dei nomadi, condanna i protagonisti a una vita di stenti. Dal «sistema» si esce solo con una scelta individuale di dignità – non c’è spazio né voglia per la rivendicazione di un diritto.

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