Recensione su My Father Jack

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Guazzabuglio senza progetto / 13 Maggio 2016 in My Father Jack

Matteo (Matteo Branciamore) è un avvocato che sta per trovarsi tra le mani un cliente delicato: Intino (Adolfo Margiotta), pericoloso mafioso in odore di collaborazione con lo Stato. Nella lussuosa casa in cui vive, sulle rive del lago d’Iseo, lo aspetta ogni sera Clara (Claudia Vismara), l’avvenente compagna che sta per diventare sua moglie, figlia di una famiglia d’alta borghesia, e il cui padre Carlo Pontecorvo (Ray Lovelock) è anche capo dello studio di avvocatura in cui lavora Matteo. Matteo è alla ricerca di suo padre che non ha mai conosciuto, mentre sua madre è morta dandolo alla nascita. Arruolato un investigatore privato, dopo molti mesi di insuccessi, quest’ultimo riesce a trovare Jack Coppola (Francesco Pannofino), un pittore che vive in un maniero fuori porta ma nell’area trentina circostante, e che l’investigatore, prima di morire misteriosamente in un incidente stradale, indica a Matteo come suo padre.
“My father Jack” è un tentativo di creare un ardito mix di generi, tra il poliziesco e la commedia, tra il thriller e l’action. Purtoppo però ciò che manca al regista Zangardi è la consapevolezza del lavoro, e, superata una prima mezzora tutto sommato riuscita, perde le redini del film, facendolo scivolare in battutacce fuori luogo che scadono nel becero, decontestualizzate nel pieno di situazioni d’azione o di tensione. Una sorta di parodia di se stesso, che potrebbe sembrare un’operazione ardita se non fosse così sgangherata e disorganizzata. Questo perché il regista ha preferito lavorare senza un progetto prestabilito, ma, a quanto pare, nemmeno una idea da seguire. Ecco che tutto si sfilaccia sull’onda di ciò che Zangardi giustifica sotto l’appellativo di “grottesco”, che in realtà è una formula astrusa di mix tra una presunta comicità (questa sì becera, da cinepannettone) e assurdità dei personaggi e dei contesti. Tutto ciò che era stato creato a inizio film (una sparatoria in apertura sveglia lo spettatore sin da subito, e le belle inquadrature di location suggestive creavano il giusto pathos per qualcosa che sarebbe dovuto accadere, ma che non accade) crolla sotto il peso della pretesa di una sceneggiatura che rifiuta ogni categorizzazione inficiante una presunta portata innovativa. Il protagonista Matteo è un avvocato di successo, ma una persona tremendamente ingenua; l’uccidere un uomo diventa una forma di coraggio; impugnare un arma al posto di chiamare la polizia un valore da cui il matrimonio non può prescindere. C’è stata messa pure la mafia di mezzo, anzi, è il punto centrale su cui la storia fa perno, ma la sua banalizzazione è ai limiti del commentabile, forse pericolosa.

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