Recensione su Moonlight

/ 20167.1252 voti

Anche i maschi possono piangere? / 27 Febbraio 2017 in Moonlight

Cosa significa essere afroamericani e omosessuali? Moonlight affronta per la prima volta il tema dell’omosessualità maschile all’interno della comunità afroamericana e lo fa attraverso uno stile registico che di hollywoodiano ha davvero poco, nonostante la vittoria dell’Oscar come miglior film sia la risposta perfetta al razzismo e all’omofobia dell’America trumpiana, uno schiaffo in piena faccia al mito del WASP, l’uomo bianco statunitense eterosessuale.
Il film si costruisce al pari di un romanzo di formazione e suddivide la vita del protagonista in tre fasi salienti: la sua infanzia difficile, l’adolescenza ancor più complessa e la vita adulta.
Little, un bambino timido e riservato che subisce bullismo dai suoi coetanei, viene preso sotto l’ala protettrice di Juan, spacciatore del luogo. E’ grazie a lui che Little imparerà che “a un certo punto della tua vita devi decidere chi vuoi essere e non lasciare che sia qualcun altro a decidere per te.” Eppure il processo sarà lungo, perché la comunità non accetta l’omosessualità di Little, incapace di adattarsi a un sistema di valori che richiede al maschio nero di essere virile, forte e, ovviamente, eterosessuale. Little chiede al suo mentore cosa significa la parola “faggot” e se lui è un “faggot”, un “frocio”. E se all’interno della comunità tutti si chiamano “nigga” – negro – fra loro, sottolineando la riappropriazione politica del linguaggio discriminatorio e dispregiativo dei bianchi, non succede la stessa cosa con il termine “faggot”, che viene ridimensionato dal mentore di Little a un più politicamente corretto “gay”. Ma a prescindere dal valore politico di riappropriazione della scelta lessicale, quello che emerge da questo confronto è quanto il linguaggio incida profondamente su di noi, che ne assorbiamo il peso e dobbiamo fare i conti con lo stigma sociale che ci segnerà per sempre. La potenza e l’importanza che assume il linguaggio emerge anche grazie all’ampio uso dello slang da parte del regista Barry Jankins, che lascia che le parole scorrano senza filtri. Infine, non è un caso che i capitoli del film siano scanditi proprio dal linguaggio, più precisamente dal nome e dai soprannomi che caratterizzano Little durante il passaggio da un’età all’altra, da una fase di vita all’altra.
Si apre così il secondo capitolo, in cui Little diventa Chiron, il suo nome di battesimo. Egli ora è un adolescente e in quanto tale si deve scontrare e confrontare con la sua sessualità, all’interno di un ambiente sempre più ostile e violento che non gli lascia tregua. E in un contesto del genere il saluto cameratesco che si trasforma in una carezza esitante e sospesa non può che diventare un gesto profondamente rivoluzionario, nonché una delle scene più belle del film.
Il terzo e ultimo capitolo è intitolato Black, in cui Chiron assume l’identità del soprannome datogli la suo primo e unico amore una notte d’estate al chiaro di luna. Diventato ormai adulto, Black dovrà fare i conti con se stesso.
Moonlight è, in sintesi, una pellicola molto casta e delicata, in cui sono gli sguardi insistenti e sospesi a veicolare una implicita carica profondamente trasgressiva – sia nei confronti delle regole del cinema hollywoodiano, sia nei confronti della società violenta e omofoba all’interno della quale si muovo spaventati i personaggi. La peculiarità di questo film è che è in grado di rappresentare un maschile diverso dal solito, un maschile fatto di abbracci, carezze, scambi di sguardi. Gli uomini di Moonlight sanno essere maschi fragili, impauriti, confusi, soli, scardinando gli stereotipi di una comunità che li vorrebbe indistruttibili, virili, macisti e incapaci di interrogarsi sulla molteplicità stessa del maschile. “Ma tu piangi?” è la domanda imbarazzata che Chiron e Kevin si scambiano sulla spiaggia. E nessuno dei due è in grado di dare una risposta sincera.
Questo film lascia infine una nota amara in bocca, che ci aiuta a capire quanto sia importante riuscire a prendere in mano la nostra vita il prima possibile, senza lasciare che il peso dello stigma sociale ci trascini nell’abisso dell’infelicità, in attesa di un riscatto tardivo che, comunque, non ci ripagherà di tutti gli anni persi a non essere noi stessi/e e a interpretare il ruolo che altri hanno scelto per noi. Ed è per questo che le parole del mentore Juan devono sempre riecheggiare rumorose: “a un certo punto della tua vita devi decidere chi vuoi essere. Non lasciare che sia qualcun altro a decidere per te.”

Lascia un commento