Recensione su Principessa Mononoke

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La più rara gemma di Hayao Miyazaki / 30 Settembre 2021 in Principessa Mononoke

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Princess Mononoke, sotto il profilo del topos letterario, si presenta come l’opera omnia del maestro Miyazaki, in quanto in essa si possono scorgere e ravvisare tutti i temi cari al cofondatore dello Studio Ghibli, e che delineano, insieme alla peculiare animazione, quel racconto formativo che è alla base di ogni lavoro dello Studio stesso.
Andando però a sondare quello che è l’esoscheletro della narrazione, ossia i suoi personaggi, possiamo riscontrare delle divergenze, anche sostanziali, che mutano l’involucro del film, senza però intaccarne del tutto l’impronta idealista e femminista.
Innanzitutto, a dispetto del titolo, il caratterista principale è un ragazzo, Ashitaka, e non, come quasi sempre accade, un personaggio femminile.
Con il Porco Rosso nel 1992 avevamo già assistito a questa sorta di ‘’scambio’’ di ruolo, così come in Si alza il vento del 2013 , ultimo lavoro del Maestro.
Si potrebbe citare anche Il Castello errante di Howl , ma appare subito evidente quanto il personaggio di Sophie risalti per importanza rispetto al carismatico mago.
Quindi, cosa rende atipico il roster di personaggi di Princess Mononoke rispetto ad altre opere del Maestro?
Semplice. Sia nel Porco Rosso che in Si alza il vento, entrambi i protagonisti trovano, uno la salvezza ( e il perdono ), l’altro il raggiungimento di un sogno, grazie alla componente femminile che orbita nel racconto, e che si erge come ancora di salvezza e sostegno emotivo.
In Princess Mononoke, per la prima volta, l’archetipo miyazakiano si rompe, anzi cambia prospettiva. La donna non è al centro del percorso formativo che poi porterà il protagonista a liberarsi e a ‘’crescere’’. E’ bensì quest’ultimo a prendere le redini del racconto e a osservare tutto ‘’ con occhi non velati dall’odio’’. Quell’odio che rende Eboshi, donna forte e indipendente, cieca di fronte ai bisogni della natura, e San, verace e indomita guerriera, sorda ai richiami genuini di una fetta di popolazione che ancora conserva la sua umanità.
Miyazaki non idealizza queste due figure, non offre loro un vero percorso di crescita, almeno per quanto riguarda San, che non riesce nemmeno nel finale a perdonare il genere umano, sebbene provi un sentimento profondo verso uno di loro, ossia Ashitaka, unico vero anello di congiunzione tra uomo e natura.
San non rispecchia l’indole benevole e altruista di quasi tutte le eroine miyazakiane ( mi piace davvero il termine ), ma splende, forse ancor più di loro, per la propria genuinità. Per il fatto di risultare agli occhi dello spettatore, non caritatevole o virtuosa, ma reale, con tutte le idiosincrasie del caso.
In regia l’occhio si immerge in pianure arse di vita e di morte, nel lussureggiante disegno della natura, che primeggia su tutto, come a volerne imprimere il tratto. Stilisticamente ( e filosoficamente ) siamo vicini a Nausicaa della Valle del vento, ma qui l’impatto visivo è maggiore, fortemente condizionato sia dalla trama, che dal lato fantasy, che come sempre emerge nel suo immaginario folklorico.
La più rara gemma di Hayao Miyazaki.

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