Recensione su Mommy

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Mommy: la visceralità di Dolan. / 9 Dicembre 2014 in Mommy

Mommy è un film che parla allo stomaco e che insiste molto sul concetto di viscerale. Tale è la reazione che muove nello spettatore e tale è il rapporto che lega i protagonisti, madre e figlio, Diane e Steve.

Benché afflitto da un minutaggio forse eccessivo e da una strana incongruità (non esistono rimedi, seppur parziali, di tipo psicologico, intendo, che contribuiscano a mitigare il giovane?), il film di Dolan si muove con perizia nell’alveo del dramma famigliare, scandagliando con campi strettissimi la gestualità degli interpreti e la mimica dei loro visi, costringendo la platea a stringersi addosso agli attori, quasi a respirarne il fiato.
Il formato del film, un inusuale 1:1, somiglia a quello degli smartphone e racchiude le scene in un confine asfittico, limitato come le speranze dei personaggi in scena, un cubicolo che sembra essere senza via d’uscita e che, quando ne mostra fugacemente una, propone la peggiore, sempre.

Se è vero quanto ha dichiarato in alcune interviste il giovane Dolan (classe 1989. 1989!!! E, con questo film, ha già vinto il Premio della Giuria a Cannes parimerito con nientemeno che Godard), e cioè che il suo più grande riferimento cinematografico è Mamma ho perso l’aereo di Chris Columbus, non fatico a leggere Mommy come la drammatica esasperazione di una sottotrama di quel film americano.
Oltre ad essere apertamente citata in una sequenza, la pellicola di Columbus sembra essere stata eviscerata e portata sanguinante allo scoperto.
Mentre là la vitalità del protagonista interpretato da Macaulay Culkin permetteva di indulgere nel divertimento sfrenato e nel sorriso, qui lo Steve di Dolan è la faccia sporca della luna di quel ragazzino, ormai cresciuto, ugualmente bello, biondo e sveglio, ma incontrollabile e pericoloso, ben lontano dall’amabilità scavezzacollo di Kevin.
Steve, è imprevedibile, ma non nel modo giocoso tipico dei monelli: la pubertà gli ha regalato un corpo forte, un corpo da uomo che sta cominciando a pulsare di istinti primordiali per lui indecifrabili e di cui non sa ancora fare l’uso corretto, in cui convergono il sesso e la potenza fisica.
Il labile confine tra affetto filiale e deriva incestuosa nei confronti di Diane lo rende fragile e parimenti pericoloso.

Mi ha colpito, non so ancora se positivamente o meno, il fatto che Dolan suggerisca con diversi indizi la vicenda personale ma segreta di Kyla, la vicina di casa dei protagonisti. La sua balbuzie è legata ad un trauma che sembra averla allontanata dalla propria famiglia. Grazie a detti indizi il dramma è abbastanza intuibile, ma come mai Dolan, scientemente, lo occulta alla platea? Non si tratta, è evidente, di una dimenticanza: è una specifica volontà, ma non ne ho compreso le motivazioni.

Antoine-Olivier Pilon è bravissimo, dolente e fastidioso, perfetto nel ruolo della scheggia impazzita. Anne Dorval è decisamente credibile in un ruolo complicato che, in un eventuale (e non necessario, sia beninteso) remake a stelle e strisce vedrei bene addosso a Marisa Tomei.
Curiosa la colonna sonora: non credo mi sia mai capitato di imbattermi in un film in cui la maggioranza dei brani viene eseguita per intero. Sorpresa: Born to Die di Lana Del Rey si trova a suo agio nelle drammatiche sequenze finali come un pisello nel suo baccello (cit.).

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