Recensione su Mirai

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Una specie di best of degli anime di Hosoda / 15 Luglio 2019 in Mirai

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Con Mirai, Hosoda Mamoru ricicla un bel po’ dei topoi della sua produzione cinematografica: salti nel tempo, smarrimenti in dimensioni parallele, uomini che si trasformano in animali (e viceversa), bambini e adulti che imparano e crescono nel solco delle più tradizionali storie di formazione…
Il film con cui Hosoda ha partecipato a Cannes 2018 nella Quinzaine ed è stato candidato agli Oscar 2019 per il miglior lungometraggio animato è una specie di best of delle sue precedenti produzioni, il che ha i suoi pregi, ma, a mio parere, ha anche alcuni difetti.

La fonte di ispirazione principale del film è di natura biografica: Hosoda ha iniziato a elaborare questo anime in concomitanza con la nascita della figlia, che si chiama proprio Mirai. Anche in casa Hosoda c’era un fratellino maggiore che, all’arrivo di Mirai, ha mostrato insofferenza e gelosia. Così, Hosoda ha attinto alla sua esperienza di genitore, per mostrare gli aspetti più comuni eppure profondamente intimi di una routine famigliare alterata da inaspettati squilibri.
Paradossalmente, quello che, di solito, è uno dei punti di forza delle storie messe in scene da Hosoda, cioè la dimensione fantastica del racconto, qui zoppica in maniera un po’ troppo vistosa (per i miei gusti). Alcuni meccanismi fantastici, per quanto tali, sono fumosi e hanno poco senso, in termini narrativi.
Per esempio, penso alla sequenza in cui Mirai, Kun e Yukko vogliono rimettere a posto le bambole tradizionali, dove tutto appare troppo reiterato e forzato. Oppure, benché affascinante e foriera di belle suggestioni (che sembrano riprese pari pari da Summer Wars), ripenso alla parentesi all’interno della stazione di Tokyo (dove, fra l’altro, l’uso della computer graphic mi è sembrato poco convincente).
Mentre la versione cresciuta di Mirai è caratterizzata molto bene con pochi ed efficaci tratti che la rendono accattivante e simpatica fin dal primo istante (in questo somiglia molto a Makoto, la protagonista de La ragazza che saltava nel tempo), Kun adolescente -che mi sarebbe piaciuto vedere in un ruolo più significativo, alla pari del bisnonno, per esempio- è un ragazzo saccente e ombroso che, a dispetto di una veloce riflessione sul valore dei ricordi, non sembra insegnare nulla a Kun bambino.

Tra i punti a favore di un film a mio parere imperfetto, c’è la capacità di rendere particolarmente umani i suoi protagonisti, un talento di cui il buon Hosoda non ha mai difettato, per fortuna.
Per esempio, Kun è un bambino al 100%, dolce e fastidioso in egual misura, inutilmente capriccioso, perfino antipatico e sgradevole nella sua infantile cocciutaggine, ma capace di incredibili intuizioni che fanno vedere il mondo con altri occhi ai suoi genitori.
A loro volta, mamma e papà di Mirai e Kun sono “difettosi”, insicuri, ma disposti (in)consapevolmente a crescere con i propri figli, aperti ai cambiamenti con il giusto mix di sentimento e razionalità.
Non è semplice rendere su schermo una tale complessità emotiva, eppure Hosoda ci riesce sempre e di questo gli rendo indubbio merito.

Però, per quanto gradevole e nonostante i riconoscimenti ottenuti in giro per il mondo nell’ultimo anno, Mirai non mi è sembrata la miglior prova offerta finora da Hosoda.

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