Un gruppo di studenti americani viene invitato a testimoniare a una rara cerimonia nella comune svedese da cui proviene uno dei componenti del gruppo. La cosa coincide con un tragico lutto famigliare appena capitato alla fidanzata di uno di questi studenti, che per imbarazzata cortesia viene invitata a unirsi al viaggio, nonostante i rapporti freddi fra lei e la compagnia maschile. La vita nel villaggio di Hårga, nel profondo nord della Svezia, si rivela presto di natura brutale e il rito via via più inquietante.
Midsommar oscilla con regolarità fra uno stilema del cinema horror americano popolare (dei giovani puniti per le loro presunzioni da uno psicopatico o dal sovrannaturale) e la piú impegnativa piattaforma dell’orrore folcloristico. Entrambi gli estremi sono a loro volta a tratti mitigati e a tratti sovraccaricati, ma non sempre nei tratti piú opportuni: la sapiente asciuttezza del set-up iniziale riesce a caratterizzare con forza e efficacia ognuno dei giovani protagonisti, voluti stereotipi raccontati però in maniera destabilizzante; quella maniera di raccontare questi stereotipi verrà meno negli atti finali del film, purtroppo. Parallelamente alla caratterizzazione dei personaggi, l’alienamento folcloristico nei suoi momenti migliori riesce a imporsi sul punto di vista dei protagonisti (prima per loro volenterosa apertura mentale, poi per il sistematico stordimento da sostanze psichedeliche) ma non ha il coraggio di mantenere quell’imposizione fino alla fine, quando ai protagonisti viene concesso di giudicare e razionalizzare, quindi impoverire, il trip terrificante che si svolge inesorabile.
Le storie di indagine antropologica come questa solitamente ricercano la neutralità dell’esposizione: qui si è cercato di ottenerla con una rumorosa pluralità di giudizi, se non effettiva indecisione. Questo mi ha deluso, ma l’aspetto preoccupante è che potrebbe essere la causa di un distacco del coinvolgimento del pubblico nel climax finale, che a quel punto rischia di apparire soltanto ridicolo.
Al netto di queste sbandate, Midsommar è un saggio dello stile del regista Ari Aster, che non sarà inedito ma è sicuramente raro e riesce a richiamare con pochi “tratteggi” di cinematografia atmosfere piene, definite, e situazioni incalzanti, sfociando infine in un abbondanza creativa che si realizza nella messa in scena della cultura “hårgariana”: il villaggio fittizio di Hårga e le sue tradizioni sono ispirate a storie reali, ma sono ricostruiti da zero: le riprese di Hårga si sono svolte in Ungheria (per vincoli di produzione); gli abitanti parlano un linguaggio inventato, l’Affekt; costumi e scenografie rimodulano i segni runici delle culture germaniche ma le maestose decorazioni degli interni sono opera inedita dell’artista Ragnar Persson e, discretamente, anticipano gli esiti delle cerimonie a cui assisteremo durante il film (sarà interessante riconoscerle, a una seconda visione: lo stesso fotogramma iniziale del film è una di queste creazioni). La fotografia a altissima e chiarissima esposizione da cui brillano i colori delle continue cornici floreali, oltre a servire all’ineluttabile contrasto fra quiete e violenza, contribuiscono a conferire a queste immagini la riconoscibilità che, piú di tutto, sta decretando il successo del film.
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