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Furyo

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David Bowie, Takeshi Kitano e una colonna sonora memorabile / 13 Novembre 2016 in Furyo

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

L’audace tema dell’omosessualità nelle forze armate è oggetto di questo film di Nagisa Oshima, strutturalmente simile a Il ponte sul fiume Kwai di David Lean. Rispetto a quest’ultimo è decisamente meno spensierato, ma condivide l’altrettanto importante tema dell’incontro-scontro tra due civiltà profondamente diverse, quella occidentale e quella nipponica della prima metà del Novecento, quest’ultima ancora legata a retaggi tradizionali e a ideali di valore e sacrificio che hanno il loro simbolo nell’harakiri che il soldato giapponese deve preferire al disonore o alla prigionia.
È un film in crescendo, con un finale agrodolce in cui si assiste all’ingiusta giustizia dei vincitori, che diventa un’inutile vendetta postuma (il sergente Hara viene condannato a morte per crimini di guerra, ma la sentenza non è altro che l’affermazione del potere del vincitore sul vinto).
Un cast assolutamente anomalo che vede oltre al pacato ma efficace Tom Conti, il futuro regista Takeshi Kitano (reduce da esperienze da cabarettista) nel ruolo del sergente Hara e due popstar come l’inglese David Bowie (ottima interpretazione la sua) e il giapponese Ryūichi Sakamoto, questi ultimi nel ruolo dei due ufficiali nemici, ma vicendevolmente attratti da una passione inconfessabile.
Sakamoto è anche autore della bellissima colonna sonora, che ha superato nettamente per fama quella del film.

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Mia colpa, mia grandissima colpa / 15 Gennaio 2016 in Furyo

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Riflessioni sparse)

Avrei voluto vedere questo film prima della scomparsa di Bowie: l’ho rincorso per tanti anni, senza riuscirvi. Ora, a pochi giorni dalla mort dell’artista, dopo un passaggio televisivo notturno, grazie al servizio streaming della Rai, ho potuto colmare questa lacuna. Ma temo che alcune considerazioni potrebbero essere inficiate dalla perturbazione emotiva lasciata dall’addio all’artista.
O forse no.
Perché voglio credere che la presenza di Bowie in scena mi avrebbe catturata ugualmente. Non ho mai saputo resistergli, infatti, dacché ne ho memoria.
Certo è che il Celliers cinematografico è un personaggio così carismatico anche grazie al fatto che è Bowie ad impersonarlo: è avulso dal contesto, sia geografico che temporale. Sarò banale, ma sembra, letteralmente, piovuto nella storia da un altro tempo, provenendo da insondabili luoghi. Indossa una sciarpa, seppur di cotone, quando tutti grondano sudore. E, in effetti, vive nel ricordo di un passato che vorrebbe cambiare, un passato che sa di parabola e di favola insieme, in cui si muove un fratello perduto, perennemente bambino, con una deformazione fisica che lo avvicina a quegli angeli di cui pare possedere la voce.
Celliers danza con la morte: non viene ferito dalle pallottole del plotone di esecuzione, sfida ripetutamente i suoi aguzzini fino a venire massacrato.
Celliers è un uomo che ha cercato nella vita militare e nella guerra una punizione ai propri tradimenti, ma, lui che mangia fiori, apprezza le buone maniere come l’offerta del tè e bacia i suoi nemici, non è portato realmente al conflitto.

Il film di Ôshima affronta con curiosa discrezione argomenti difficili come la rimozione della colpa e del rifiuto dell’omosessualità.
La scena conclusiva, durante la quale Lawrence fa visita a Hara prima che questi venga giustiziato, è particolarmente emblematica. Pur rassegnato, Hara dice che Yonoi non avrebbe meritato di essere condannato ed ucciso, dopo la fine della Guerra. E pensa che anche la sua punizione sia immeritata: benché appaia cambiato (ha l’aspetto di un monaco shintoista e ha deciso di imparare l’inglese), non è riuscito a realizzare appieno quanto illogici siano stati i comportamenti adottati dai giapponesi durante il conflitto e nel campo di prigionia militare. Per quanto assurde siano le motivazioni che hanno portato gli Occidentali in guerra, quelle nipponiche sembrano ancora più irrazionali, regolate da ataviche leggi basate sul senso dell’Onore.

Talvolta, come dice Lawrence, la vittoria è difficile da mandare giù, specialmente se, paradossalmente, il vincitore/sopravvissuto riesce a sviluppare una forma di ammirazione e di rispetto per il nemico, non considerato semplicemente tale, ma -piuttosto- come un termine di confronto delle proprie azioni e reazioni.

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