Una vale tredici / 27 Gennaio 2018 in Manifesto

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Mi aspettavo una roba tipo Cate Blanchett che fa Karl Marx. Invece non proprio, ma interpreta qualsiasi cosa, incluso un barbone tra Marx e Babbo Natale, e forse è l’unico personaggio fuori dalle righe – non è che puoi dirle di impersonare proprio TUTTI. Ora fammi un cane (Cane Blanchett). E così via. L’idea di questo Julian Regista, in realtà artista e solo contingentemente regista che inizialmente ne aveva fatto una installazione con un salone e 13 schermi da cui arrivava ogni segmento, tutti contemporaneamente, è prendere Cate e farle declamare, recitare, leggere, prosaicizzare, interiorizzare, estratti vari di manifesti vari, soprattutto del periodo bello (bello per i manifesti, storicamente parlando orribile) a cavallo tra fine XIX e inizio XX secolo, ma anche altri. Per cui si parte dal Manifesto del Partito Comunista, da quello del Futurismo, poi si prende lo spin e via via arrivano il Tristan Tzara con la pipa in bocca, guai a chi la tocca, il Suprematismo, boccate di Surrealismo e Breton, e qui già s’è perso il segno di tutto, vorticano Fontana e Dziga Vertov, il situazionismo e Werner Herzog, per arrivare a Dogma 95. Su wiki EN c’è l’elenco completo, non so nemmen dire se ci si diverte di più quando li si riconosce, che serve sempre a darsi un tono, o quando no. Quindi, ci sono tre vecchie in mezzo a un prato brullo che sparano fischioni. Una è Cate? No, Cate è, dicevamo, il barbone che passa lì accanto. Ché il gioco riesce ed è sempre la decontestualizzazione, personaggi “quotidiani” vivono-lavorano-muoiono, miseri e buffi ma con la bocca e i pensieri rivolti a far esplodere le accademie dell’arte, e tutta la retorica dickhead propria dei manifesti incazzati d’antan. Che poi un manifesto è contro qualcosa, chi fa più i manifesti? Cate è una madre che fa pregare i figli prima di tagliare il pollo, Cate è il pollo prima di essere tagliato e innaffiato di sugo (no questa no), una vedova che tiene il discorso durante il funerale, una CEO a un party fichetto, una tizia che di mestiere sposta rifiuti da qui a lì con una manona tipo quella delle giostre; e poi ancora: una creatrice di marionette nel suo laboratorio, pieno di marionette di personaggi famosi (suddetti inclusi) che ti fissano, e crea se stessa. Cate crea Cate, è una punk a una festa di sballati, una coreografa similrussa che istruisce un corpo di ballo di ballerine aliene; Cate è una presentatrice televisiva ma è anche l’inviata a cui passare la linea, quelle sotto la pioggia battente, e una maestra con una classe di novenni. In ogni momento c’è un rischio altissimo che qualsiasi personaggio si metamorfosi in… Cate Blanchett. Ci sono alcune chiavi, figure, forme, ricorrenti: i bambini aka (facile) il futuro, le macerie meaning il contrario, l’altro ieri che si distrugge per creare dal fuoco (cioè il prologo); l’architettura, post modernista, moderna ma distrutta, martoriata o ipermoderna e bianca e smussata come l’ipod, le spirali. Spiraliforme è il movimento dei bimbi che giocano e l’incedere stesso, con le scene (con la relativa Cate di turno) che si alternano e a volte ritornano altre meno, ed a una certa compare pure il monolite di Kubrick, pur se orizzontale. Va da sé che in un tale ribollire (girato per la cronaca in 12 giorni), e nella tensione prolungata che si crea con lo scarto costante tra la normorealtà mostrata e quel che viene detto, sta tutto il film, dove non occorre, o non serve, o si rinuncia in fretta a cercare dei fili narrativi (puahhh! Roba da accademie!) e ci si può invece smarmellare completamente nell’onda di idee/associazioni riversata dallo schermo, uno solo, dove i testi fuori contesti ritornano all’avanguardia per il fatto che non ha senso che siano proprio lì, proprio ora, proprio Cate.

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