Mandarini / 21 Maggio 2016 in Tangerines - Mandarin

Nel 1990, tra la Georgia e l’Abcasia, Ivo e Magnus sono impegnati nella raccolta dei mandarini. Il primo è un falegname, che nel suo casotto nei pressi della sua dimora costruisce cassette per la frutta; il secondo è il proprietario dell’agrumeto. Intorno a loro imperversa il conflitto tra georgiani e caucasici, conseguente alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un giorno due automezzi di fazioni opposte si scontrano davanti casa di Ivo: i sopravvissuti sono solo due, Ahmed, mercenario ceceno, e Nika, attore teatrale georgiano prestatosi alle armi. Ivo accoglierà entrambi nella sua casa, prestandogli soccorso, vitto e alloggio.
Sono molti i film che esplorano la disseminazione delle ostilità in conseguenza della fine del blocco sovietico. Recentemente “Sole alto” ci ha mostrato le ripercussioni del conflitto ex-jugoslavo nel tessuto sociale, attraverso l’esplorazione di tre decadi. Tangerines – mandarini però è un film molto diverso, che non si pone come presupposto l’indagine sul conflitto in sé e le sue conseguenze, ma crea nel piccolo ambiente composto da quattro uomini con storie molto differenti, uno spazio neutro dove astrarsi dall’urgenza del conflitto, provandone a capire l’insensatezza. Sono in particolare tre le fazioni che si scontrano nell’abitat provvisorio: le due opposte nazionalità in guerra, e la forza pacificatrice di Ivo, estone di nascita, che senza molti fronzoli impedisce ai due di uccidersi all’interno del suo ambiente domestico, facendone una questione di rispetto e di onore. Magnus è l’amico di Ivo, colui con il quale passa le giornate e in cui trova un aiuto sia fisico che morale. È un’amicizia fatta di vicinanza umana più che di parole.
Non ci sono filosofie elaborate nel film di Urishadze a spiegare la banalità della guerra, ma piuttosto la messa in opera di un contesto “da laboratorio” (per il suo essere ristretto e controllato) a distendere le trame di una umanità che s’impone in luogo di una divisione ideologica. Il vivere insieme crea le premesse di una conoscenza che lavorerà sull’essere-umani, per ritrovare una convivialità tenace e veritiera, che non si ergerà a superiore in quanto tale, ma si esporrà come una delle possibili varianti del vivere umano, la più sincera. La ruralità della scenografia ancora di più simboleggia la basilarità dell’azione umana, quella costruzione giorno dopo giorno della propria condizione materiale che incide inevitabilmente nello spirituale.
Tangerines non si preoccupa di una sintesi dell’elaborazione di un conflitto, ma piuttosto si pone come antitesi, fermandosi un attimo prima della conclusione netta. Umanità non solo nel messaggio, ma nei gesti, nella scenografia, negli attori sempre capaci di far emergere l’umiltà della loro condizione, e una narrazione sincera (per questo anche spietata) di quanto la lotta sia artificio subdolo e meschino, ma non meno reale.

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