Recensione su M - Il mostro di Düsseldorf

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M - Il mostro di Düsseldorf
Regia:

L’architettura scenica, narrativa e mentale di Lang / 2 Agosto 2016 in M - Il mostro di Düsseldorf

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Stupefacente Lang, alle prese per la prima volta con il sonoro, ma in grado di sfruttare al meglio le potenzialità del nuovo strumento, un’attitudine che ben si palesa fin dal principio, con un folgorante incipit, quello della tiritera infantile, caratterizzato da un’innocente voce fuori campo che recita un’inquietante conta che segue come un alito mortifero una mamma prossima al lutto. E, poi, sarà proprio un suono (una melodia fischiettata) a svelare l’identità dal maniaco che adesca e infine uccide ignare bambine.

La prima parte del film è anche un eccellente esempio di quella che mi piace definire “staffetta narrativa”: mentre la vicenda di srotola in tutta la sua morbosa drammaticità, Lang mostra la reazione dei più disparati soggetti alla vicenda di cronaca che sta attanagliando la città, affidandosi ad una sorta di tenace filo invisibile che pone tutti in connessione.
Con un incredibile senso di fluida continuità (quasi con un piano sequenza), la storia passa dai bambini che giocano in cortile, alla madre (e alla casa) della povera Elsie, poi agli ufficiali di polizia impegnati nel caso, poi ai membri di un circolo maschile, poi alla riunione dei boss della malavita locale… e così via, con un veloce inserto riservato alla prima chiara apparizione del Mostro (visto doppiamente di fronte, mentre si guarda allo specchio): Lang seziona i fabbricati del tessuto urbano berlinese come se si trattasse di case di bambole, mostrandone arredi, abitudini domestiche, puri dettagli di colore.

E questa sua propensione all’uso degli artifici pittorici e architettonici è quantomai palese nel resto del film, pienamente espressionista (eppure realistico) nell’uso delle inquadrature dall’alto, utili a rappresentare le geometrie che regolano l’urbanistica del centro urbano (ricostruito in studio): “Fritz Lang, figlio di architetto e per un semestre studente di architettura, realizza un tipico film ‘da architetto’ (…). In ‘M’, l’architetto Lang fa della città uno dei personaggi principali del dramma (…)” (Licata-Travi, “La città e il cinema”, 2000).

Racconto sulla mostruosità dell’animo umano (non è solo lo sciagurato Hans Beckhert a dare sfogo ai propri abietti istinti, ma la popolazione tutta, pronta al linciaggio “a prescindere”, come mostra la sequenza dello scambio di persona), M sgomenta per la schiettezza con cui Lang espone la naturalezza dell’abominio, l’abissale profondità delle sue radici, così attorcigliate all’Io di Beckhert da prendere il totale controllo dei suoi atti e dei suoi sensi: “Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos’è che sento urlare dentro al mio cervello? E come uccido: non voglio! Devo! Non voglio! Devo! E poi sento urlare una voce, e io non la posso sentire!”. Beckhert è in trappola, all’interno della propria mente, esattamente come quando si ritrova fisicamente circondato dai suoi inseguitori in prossimità di un emblematico crocevia urbano e, successivamente, quando resta imprigionato nelle soffitte di un edificio che, come lui, esternamente appare rispettabile, ma che, tra le proprie mura, al piano più alto (corrispondente alla testa di un essere umano, se vogliamo) accoglie un assassino.

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