Sorrentino e la farsa / 12 Maggio 2018 in Loro 1
A 10 anni quasi esatti da Il divo e a un anno e mezzo da The Young Pope, con Loro Paolo Sorrentino compone quella che mi pare una ideale trilogia del potere all’italiana.
Con il ritratto assolutamente personale e rielaborato di Giulio Andreotti, il regista napoletano ha rappresentato il concetto di potere politico, pubblico e occulto, che ha caratterizzato la Prima Repubblica e che ha allungato efficacemente le sue mani nella Seconda.
Creando la figura di Lenny Belardo, Sorrentino ha esplorato a suo modo le camere del Vaticano passato, presente e -perché no?- futuro. Per quanto il Vaticano sia un Paese a sé, è strettamente connesso alla geografia (fisica e mentale) dell’Italia.
Con Loro, l’autore ha preso in esame e manipolato il personaggio che, nel male, ha segnato irrevocabilmente la storia italiana, contribuendo a ipotecare il futuro e la forma mentis di diverse generazioni.
Silvio Berlusconi è il crocevia del Divo e del Papa di Sorrentino, è il punto in cui piano (Andreotti, la Mente) e retta (Belardo, l’Anima) si intersecano e, in quanto buco, è ferita, è ulcera, è una piaga che suppura sulle ferite del Paese da più di vent’anni.
Nonostante il dolore, l’infezione, la puzza, Berlusconi è ancora lì e prova a condizionare il panorama sociopolitico nazionale (è di poche ore fa la notizia della sua riabilitazione politica dopo la condanna del 2013 che lo aveva interdetto dai pubblici uffici perlomeno fino al 2019, una riabilitazione che apre incredibilmente la strada a una sua possibile presenza in questa legislatura, ancora incerta a più di due mesi dalle ultime elezioni politiche).
Con un impressionante senso del vaticinio, Loro 1 è arrivato nelle sale italiane in un momento politico confuso, contraddittorio, spaventosamente privo di senso e prospettive, in cui il simulacro in sfacelo di Berlusconi non teme di mostrarsi nuovamente.
Loro 1 non fa altro che ribadire che il modus operandi berlusconiano è così incistato nella “struttura” dell’Italia contemporanea che non riusciamo a vomitarlo fuori.
Con questo film, Sorrentino mostra Berlusconi come il punto di riferimento e l’oracolo di una manica di arrampicatori economici (non viene neppure naturale chiamarli “sociali”) che, al fiero motto di: “Mi sono fatto da solo”, vive solo per assicurarsi il potere. Il culto dell’effimero, del possesso a breve termine (la bellezza/la giovinezza è la chiave del successo di chi non sa fare niente, come paradigma il personaggio della Smutniak: c’è adesso e dura un attimo) è una candela che brucia dai due lati, consumando velocemente nomi, ruoli amministrativi, relazioni.
Pur non avendo apprezzato la divisione del racconto di Sorrentino in due parti, in qualche maniera provo a comprenderlo (esulando dalle possibili scelte economiche della casa di distribuzione). Dopo l’esperienza di The Young Pope, la struttura così definita di Loro riprende (volente o nolente) quella della serialità televisiva, interrompendosi sì in un momento topico del racconto, ma in maniera analoga a qualsiasi serie tv che vive di cliffhanger.
La prima parte di Loro 1, mi è piaciuta molto, anche se “scimmiotta” (senza raggiungerli) i vertiginosi livelli dell’incipit de Il divo. Si tratta di una farsa eccessiva (più volte, nel film, si parla del Bagaglino e, secondo me, non a caso, quasi per evidenziare la differenza fra imitazione da avanspettacolo e rielaborazione del soggetto e, in realtà, cos’altro è la parabola berlusconiana se non una farsa grottesca?) in cui -se non ci si turba dinanzi al turpiloquio, alla sovraesposizione di corpi (femminili) nudi e di coiti feroci e ridicoli- ci si diverte a individuare i riferimenti ai personaggi realmente coinvolti nelle note vicende, ma che prepara bene il terreno all’entrata in scena di Servillo/Berlusconi. Tanto che, a dirla tutta, a dispetto del mestiere con cui Servillo ha scelto di mettere in scena il personaggio, la sua presenza fa calare di colpo la tensione, mostrando le prime terribili contraddizioni di un uomo di scarsa levatura, ma di grande arroganza, obnubilato da se stesso.
Con questo film, a Sorrentino si chiedeva tacitamente di essere cattivo e, a parer mio, lo è stato a sufficienza. Ride e fa ridere dell’entourage di Berlusconi (di lui, a dirla tutta, ancora non so bene), orride maschere di carne, corpi -pur giovani- a un passo dalla necrosi. Se proprio deve esserci un consueto riferimento felliniano, non è quello de La grande bellezza, La dolce vita, pur citato a chiare lettere in una sequenza del film, ma il Casanova, con il suo apparato circense di dissolutezza estetizzata.
Il cast è ben assortito. C’è la buona prova di Scamarcio/Morra/Tarantini, della Smutniak/Kira/Sabina Began (forse, anche Nicole Minetti), di Bentivoglio/Santino Recchia/Bondi+Formigoni. Ma tutti gli attori, pur comparendo per brevi istanti, mi pare risultino incisivi, Ricky Memphis, Anna Bonaiuto, Herlitzka docent.
Si compiace lo stesso Tarantino, è chiaro, esagerando con alcuni leziosi simbolismi (ancora, non ho capito il senso della scena della pecorella), mal supportato (stranamente) da specifici apparati tecnici (insiste con gli animali in CG, dopo quelli de La grande bellezza, ma ratto e rinoceronte, oltre a detta pecorella, sono un po’ imbarazzanti). Il rischio che corre è quello di arenarsi in soluzioni di maniera davvero troppo fini a se stesse.
Bella colonna sonora, come da tradizione. Nota: fra i brani, c’è anche Jump Into the fire di Harry Nilsson, compresa pure nella soundtrack di A Bigger Splash di Guadagnino, un altro autore che, in quanto a senso estetico e musicale, non scherza.
Sproloqui a parte, sono molto curiosa di vedere Loro 2.

@Stefania credo che la pecora, che nella cristianità indica il gregge, indichi metaforicamente il popolo italiano ammaliato da quel mondo apparente e gioioso ritratto dall’ascesa delle tv berlusconiane e dal mondo berlusconiano. Successivamente muore perchè non riesce a resistere alle condizioni gelide di quel mondo a cui solo alcuni riescono a stare ( basti pensare a Tarantini che fine ha fatto, oppure le varie partecipanti alle “cene eleganti”) .
@gabriapad96: grazie per lo spunto 🙂 Ma resto perplessa. A parte il simbolismo spinto che… va beh, de gustibus, mettere una scena così (sempre che abbia questo significato) come incipit non mi convince. In questa forma, non è un preambolo, ma una constatazione, una tesi. Peccato che, in questo modo, mi permetto di dire, venga formulata prima dell’ipotesi.