Dalla parte dei nativi… / 17 Gennaio 2016 in Piccolo grande uomo

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Tra i primi film del genere western che cambiarono drasticamente la prospettiva dell’età classica (quella alla John Wayne, per intenderci), abbiamo il poco celebre Soldato blu, il più famoso Corvo rosso non avrai il mio scalpo, di Sydney Pollack, e questa piccola perla che è Little Big Man.
Siamo agli inizi degli anni Settanta: con Il laureato e Gangster Story, passando per Easy Rider, la New Hollywood si era affacciata prepotentemente stravolgendo regole e dettami del cinema classico hollywoodiano.
E il western non potette esimersi dal confrontarsi con questa corrente rivoluzionaria, che per la prima volta portò lo spettatore ad abbracciare la prospettiva dei nativi, fino a quel momento visti esclusivamente come nemici, magari onorevoli e coraggiosi, ma non per questo degni della considerazione e del rispetto che meritano gli esseri umani in quanto tali.
E’ a partire da questi film che si comincia ad infondere nello spettatore una profonda empatia per il popolo dei nativi d’America, cercando di far comprendere le loro ragioni, e Little Big Man lo fa in maniera particolare, rappresentando la bellissima storia di Jack Crabb, cresciuto coi Cheyenne (che significativamente chiama se stesso “il Popolo degli Uomini”) e trovatosi più volte, nel corso della sua incredibile esistenza, a passare il confine tra la civiltà dei bianchi e quella degli indiani, nella quale, in fin dei conti, finirà per trovarsi maggiormente a suo agio.
Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Berger, il film è quasi un Forrest Gump ante litteram, ambientato ai tempi del far west. La vita del protagonista è assolutamente straordinaria: incontra i più importanti personaggi dell’epoca (dal Generale Custer a Wild Bill Hickcock), determina con le sue azioni l’andamento di grandi episodi della storia americana (la celebre battaglia di Little Big Horn, che vide la sconfitta di Custer e dei suoi uomini da parte di una coalizione di Sioux e Cheyenne).
Un film epico in cui, ciò nonostante, Arthur Penn riesce ad includere una profonda ironia che a tratti contrasta tale epicità: è il caso della meravigliosa sequenza finale in cui il capo Cheyenne Cotenna di Bisonte si accinge a morire, dopo aver recitato un bellissimo discorso, salvo venir sorpreso da una pioggia improvvisa che interrompe i suoi propositi.
La rivoluzione della Nuova Hollywood rispetto al cinema classico americano è anche e soprattutto in questo, nell’umanizzazione di situazioni un tempo cariche di retorica e totalmente stereotipate nella loro presunta necessaria grandezza. Penn ci dimostra con quel bellissimo, tragicomico finale, quanto siano stati inutilmente pomposi decenni di cinema western e questa è una delle grandi cose che ci regala questo film, insieme alla consacrazione di un astro nascente come Dustin Hoffman (che dopo Il laureato si era affacciato nell’olimpo degli attori americani) e alla conferma di una bellissima Faye Dunaway, una diva di rottura che ebbe una carriera analoga a quella di Hoffman, iniziando entrambi ad avere ruoli importanti in quel fatidico (per il cinema americano) 1967.

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