30 Gennaio 2015 in L'immagine mancante

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Il regista, sulla 50ina ma con una voce narrante off da 30ina, racconta la sua infanzia cambogiana. Proprio nel momento giusto, quando i Khmer rossi prendono il potere e uccidono tutto (‘75-’79). E lo fa con questo abbastanza unbelievable documentario narrativo in cui tutto è rimesso in scena attraverso delle statuette d’argilla. Stai per un’ora e mezza a guardare delle statuette d’argilla sullo schermo?
Sì, preciso.
Ah ok, volevo giusto essere sicuro di aver capito bene.
In realtà si tratta di una alternanza e/o sovrapposizione fra statuette e immagini d’epoca, l’insieme ricrea l’ambiente e il terrore, i suoni e i profumi, i vivi e i morti, dei suoi ricordi. Prima la spensieratezza, quand’ecco arrivare la rivoluzione, la rivoluzione riconverte tutto, i destini e persino le automobili, arnesi (turbo)capitalisti che vengono convertiti a strumento agricolo comunista. Il padre insegnante si lascia morire di fame, le statuette dei suoi famigliari spariscono una a una, dissolte nella carestia continua. Statici (peffozza!) i personaggi, la camera scorre di lato, ogni tanto compare Pol Pot, che sorride e applaude sempre. Intanto, nelle campagne, tra fango e risaia, di fame e di riso si moriva, a kind of slavery, e chi è sopravvissuto a quel periodo sente come il regista il bisogno di testimoniare, il senso di colpa di avercela fatta, il dovere di andare alla ricerca dell’immagine del titolo mancante; piuttosto di plasmarla con le proprie mani ma di ridare forma concreta (aahah, con-creta! L’hai capita? Eh? Eh? ← ti segnalo che questa allegria è del tutto fuori luogo u.u) a una generazione scomparsa in un insensato ripiegarsi della Storia. Tutto ciò detto, l’idea in sé di concepire e realizzare un film del genere è assurda ed enorme, e mi chiedo quante migliaia di statuette ho appena visto scorrere sotto gli occhi. Ecco, infinitamente meno dei morti/mancanti che raffiguravano.

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