Recensione su La sposa promessa

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Riprendiamoci l’amore / 15 Dicembre 2012 in La sposa promessa

Si tratta di amore. Qui “è solo una questione di sentimenti”, come dice il rabbino in una scena chiave.”Riprendiamoci l’amore”, allora, sì, l’amore, quello vero, quello che non ha a che fare con copioni più o meno scontati da ascrivere, di solito, alle dinamiche psicologiche ed emotive che caratterizzano i singoli, catapultati in un modo o nell’altro in una situazione che potrebbe diventare, o di fatto diventa, una relazione di coppia [che barba!]. E non si tratta nemmeno di sesso, di seduzione, di strategie di incontri o di allontanamenti, di difficoltà ad aprirsi, ritrosie o entusiasmi facili, giovani, magari anche ben riposti, ma pur sempre entusiasmi [ok, riusciamo ad andare oltre?!].

Ciò che viene espresso qui, dietro tutte le restrizioni, i costumi rigidi, le usanze che possono sembrarci antiquate, esagerate, fondamentaliste, è la cifra inconfondibile del sentimento. E non ci sono storie. Non cominciamo a tentare di chiamarlo in un altro modo – affettività, senso della famiglia, dovere, o non so cosa. È amore. Punto.
– Yochai ama, molto, e si emoziona di un’emotività calda, partecipata, sofferente il rifiuto, eppure decisamente “percipiente” dietro quell’immobilità e costrizione richiesta dai costumi
– Shira ama – alla fine – eccome se ama, crescendo forzatamente in un lampo, e attraversando rapidamente e in modo forse un po’ violento l’esperienza dell’innamoramento esuberante per approdare, donna e matura, alla pervasività – mille volte più profonda e più forte – del sentimento d’amore…

Insomma:
– pellicola incredibilmente delicata in mezzo a tutta la rigidità di costumi che mostra, e decisamente ricca di intensità nel vissuto dei personaggi: la scena dell’amaca parla da sola: un’altra piccola perla in cui il cinema mostra tutta la propria forza comunicativa, fatta di silenzi, in fondo, eppure di espressività, fatta di un quasi nulla dove tuttavia le inquadrature, il montaggio, e la bravura degli attori sono tutto, dicono tutto, e non rimane altro che contemplare e partecipare a ciò che viene (letteralmente) messo in scena [“Questa è la regia” direbbe Mark Cousins nel suo prologo di The story of film. ;-)]
– molto interessante l’esordio di Rama Burshtein, con quella scelta di giocare sul doppio piano “a fuoco/sfuocato”, sui primissimi piani, su un’assenza quasi totale di esterni, e in luoghi stretti, di cui si vedono solo micro spazi, chiusi, come chiuso – estremamente chiuso – è il mondo che in essi viene ritratto… e vogliamo parlare dell’uso dei costumi?
– infine, fa sicuramente “effetto” vedere ritratto questo mondo così “fondamentalista” – si direbbe in altri contesti – che ci viene così poco comunicato, e malgrado Israele venga considerato/trattato come “parte del mondo occidentale” dal 1948. Ed è difficile restare asettici davanti a questa rappresentazione di una realtà tanto diversa, per certi perfino impensata come realtà contemporanea, eppure questo film mi è piaciuto anche per questo, per ciò che rappresenta e porta alla nostra attenzione, senza giudicarlo, ma solo con il desiderio di mostrare che malgrado l’apparenza (leggi, l’esteriorità dei costumi) si ama anche lì, eccome se si ama, non importa se ci sembrano esagerate certe posizioni di presunto dolore, o di esclusione/sudditanza della donna, ciò che Rama Burshtein vuole dirci (forse) è il fatto che i sentimenti hanno uno spazio, sempre e comunque, e a costo di infiltrarsi tra gli interstizi – con tempi e modi necessari a che un intero sistema si muova e si evolva – fino ad emergere.
Per quanto mi riguarda, brava Rama, sceneggiatura e regia gestite molto bene.

P.s.
Non sono in grado di tradurre l’ebraico, ovviamente, ma quanto è più significativo rispetto al contenuto tematico del film, il titolo inglese, “Fill the void”?… Inutile dire che il riferimento più importante non è certo al “vuoto” fisico, no?

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