Recensione su Charley Thompson

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Dickens, Truffaut e i Soul Asylum / 30 Marzo 2018 in Charley Thompson

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Durante la visione del film, ho pensato insistentemente a due cose.
Prima di tutto, al fatto che Charlie Plummer, premiato per questa interpretazione come attore emergente a Venezia 2017, mi ricordasse molto River Phoenix, sia per il volto (il naso, gli occhi, la fronte!) che per i suoi personaggi liminali, costantemente in fuga da pericoli vari e da se stessi.
E, poi, mi ha riportato alla memoria il video della canzone Runaway Train dei Soul Asylum. Lo ricordate?
Parlava di adolescenti in fuga (perché maltrattati, abbandonati, abusati, ignorati) e bambini rapiti. Durante il videoclip, venivano mostrati i nomi e le foto di alcuni ragazzini scomparsi da casa, negli Stati Uniti.
Era crudo ed esplicito, perché non risparmiava all’immaginazione scenari davvero drammatici. Inoltre, era caratterizzato da un mood estetico pienamente anni ’90. Flash di luce, inquadrature sghembe, ralenti, chitarrine alla Peter Buck e, soprattutto, ambienti domestici e urbani degradati, squallidi, impersonali.
Per chi non lo avesse presente, eccolo qui: https://bit.ly/1mcS2j9

Ecco, il film di Andrew Haigh sembra una versione estesa di quel vecchio videoclip, tanto che, non so bene quanto scientemente, ne ripropone l’atmosfera borderline, le case semivuote e precarie, il senso di abbandono, al punto che, per buona parte del tempo, ho faticato a inquadrare temporalmente la vicenda. Niente cellulari, ma telefoni a gettoni, auto datate, abiti senza una precisa caratteristica estetica. Un paio di dettagli (il personaggio di Buscemi che accenna alla gente incollata ai pc, il videogame dei soldati, quindi i soldati stessi, probabilmente reduci dall’Iraq o dall’Afghanistan, questo non è dato saperlo) mi hanno fatto propendere per un contesto attuale, ma poco importa.
A parer mio, questa indeterminatezza è un punto a favore del film, perché rende la vicenda di Charley Thompson scontornata, sospesa nel tempo, quasi a ricordare che di Charley sono pieni il tempo e lo spazio e che la qualità della vita di un bambino è davvero questione di fortuna.

In sostanza, il film Charley Thompson, tratto dal romanzo Lean on Pete dello scrittore e songwriter americano Willy Vlautin, ripropone in chiave contemporanea le vicende di Oliver Twist di Dickens. Un orfano dal cuore buono costantemente in fuga e, diciamocelo, dotato di una quantità di buona sorte non indifferente, a fronte di un contesto tragico.
Il merito maggiore del film, altrimenti -a mio parere- decisamente convenzionale, sta nella sensibilità mostrata da Haigh nella rappresentazione del giovane protagonista, incosciente e sentimentalmente turbato (il suo attaccamento al cavallo ha, correttamente, un che di isterico), intrappolato nella sua condizione di disadattato, impaurito da una sovrabbondanza di incognite, disposto a investire tutto ciò che ha (paradossalmente, niente) in un progetto à la Tom Sawyer evidentemente rischioso.

Come tutte le persone che, nel corso del racconto, hanno pietà del buon(issimo) Charley, lo spettatore è messo comodamente nella condizione di sentirsi predisposto empaticamente con lui, compatendone la condizione e le vicissitudini estremamente sfortunate.
Ecco, rimprovero questo al film: il dirottamento calcolato delle emozioni del pubblico su un personaggio, a conti fatti, monodimensionale, interessante solo perché è una creatura in divenire. Lo fa con mestiere, con delicatezza, ma, forse, esagera: pur trattandosi di una storia di formazione, lascia poco margine a un’evoluzione dello stesso Charley, affidando (bene) a una specie di finale aperto una prospettiva incerta sul futuro del protagonista (poco ci manca che Plummer guardi in camera come Léaud/Doinel ne I 400 colpi di Truffaut).

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