20 Dicembre 2017
Oskar è un solitario ragazzino che vive con la madre divorziata in un opprimente sobborgo di Stoccolma. Siamo agli inizi degli anni Ottanta e Oskar passa da solo il tempo cercando di risolvere un cubo di Rubik. A scuola è spesso vittima delle angherie di alcuni bulletti, sopraffazioni che lui accetta quasi senza reagire. La sua vita ha una svolta quando una sera incontra una bambina da poco trasferitasi nell’appartamento vicino al suo. Eli, questo il suo nome, ha gli occhi tristi e un aspetto sudicio, ma è gentile come nessuno lo è mai stato con lui e tra i due nasce una profonda amicizia. Eli però non è solo quello che appare, come lei stessa ammetterà ha dodici anni da moltissimo tempo, non è una ragazza e nemmeno un ragazzo e per vivere ha bisogno di nutrirsi di sangue: Eli è un vampiro. Dalla trama il film può apparire come una classica storia d’amore tra adolescenti sulla falsariga di Twilight, ma più che ai vampiri della Meyer siamo più vicini a quelli, per esempio, di Abel Ferrara in The Addiction. Il vampirismo è visto come un peso e una condanna che porta alla solitudine e all’angoscia, aggravata dalla condizione preadolescenziale cui il suo corpo è condannato a rimanere per l’eternità. Il vampiro abbandona per una volta le modaiole connotazioni glamour, pateticamente melanconiche e i poteri quasi supereroistici, per ritrovare quelle della tradizione che li vuole esseri solitari e bestiali. L’incontro di questa creatura con un essere umano altrettanto solo ed emarginato, non tralasciando il bisogno di sangue di Eli, fa diventare il film, per quanto terrificante, dolorosamente romantico ma con una sensibilità tale da renderlo, nonostante l’età dei protagonisti, qualcosa di estremamente lontano da un qualsiasi young adults movie. La sceneggiatura è opera di John Ajvide Lindqvist che adatta in maniera relativamente fedele l’omonimo romanzo da lui stesso scritto. Le differenze più evidenti sono lo snellimento delle trame che scorrono parallele al rapporto tra i due giovani, lo scritto è una sorta di romanzo corale, dove ai diversi protagonisti è fornito un passato e un carattere ben definito, e la minimizzazione degli elementi più terribilmente raccapriccianti del romanzo. Eli, in effetti, non è una ragazza ma nel film non ne vengono svelate le atroci origini, così come non sono svelate quelle del suo aiutante adulto addetto a procurargli il sangue, un pedofilo. Il titolo, Lasciami entrare, si riferisce a una canzone di Morrissey che parla di solitudine e allude anche alla tradizione secondo cui il vampiro non può entrare in una casa se non è stato preventivamente invitato. Un semplice gesto che simboleggia il pericolo che abbiamo scelto di correre fidandoci di una persona cui offriamo ospitalità e che nella vicenda assume il tono di una disperata richiesta d’aiuto con cui Eli chiede a Oskar di lasciarla entrare nella sua vita nonostante i pericoli insiti in quest’amicizia. Il film ha avuto un remake prodotto dalla rinata Hammer Film nel 2010 dal titolo Blood Story (Let Me In).

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