25 Luglio 2011 in L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza

Piccola storia minimalista ad altezza di bambino, una intera estate disorientato e solo, il nonno morto improvvisamente, i genitori letteralemnte spariti, immerso in una città enorme come San Paolo, in un quartiere a lui estraneo, fra genti che hanno riti a lui sconosciuti, fra una miriade di etnie e nazionalità che si sono fuse, diverse tra loro, ma eguali nella terra che li ha accolti.
E’ un piccolo apologo del multiculturalismo, della convivenza civile tra persone di estrazione culturale e religiosa differente.
Efficace la rappresentazione del quartiere ebraico, le difficoltà del ragazzino nell’adeguarsi, la quotidiana vita di quartiere con tutti i passaggi (un po’ scontati) della storia di formazione e crescita (quasi classiche, troppo, le sequenze riguardanti i primi bollori adolescenziali). La soluzione della storia è un po’ affrettata e certamente non chiara.
Il calcio è un vettore di unione nazionale, per cui italiani, neri, ebrei, slavi etc. sono tutti una nazione, ma è anche un mezzo per distogliere l’attenzione su cosa capita nel paese, l’avanzata della dittatura non emerge mai chiaramente dalle parole degli adulti, ma è filtrata solo dalle persone che sono costrette improvvisamente ad “andare in vacanza”. E il bambino è come un simbolo del paese, raccoglie informazioni spezzate, piccoli segnali di inquietudine oltre la coltre del quotidiano andare avanti, cerca dei punti cardinali per orientarsi all’interno di una vita che è radicalmente cambianta anche se non sembra, fino a che la piena presa di coscienza non avverrà con una tragedia irrecuperabile.

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