Un ritratto fisiologico, ove la vittima, più che sostituirsi, si fonde al carnefice, in un gioco di luci e ombre dagli inevitabili risvolti drammatici / 3 Settembre 2017 in Lady Macbeth

Trasposto ( in parte ) dal romanzo di Nikolaj Leskov, Lady Macbeth si sposta dal distretto di Mtsensk per originarsi nella rurale e austera realtà inglese dell’ottocento, fra aritmie di luci e ottenebrati silenzi, che ne dipingono al meglio i solenni tratti.
L’opera di Oldroyd cattura per il suo formale aspetto, all’apparenza asciutto, ma saturo di trasfigurazioni e mutamenti, insiti negli angoli e nelle inquadrature opprimenti di un casale, dimora dell’ambizione e del turbamento.
La protagonista è l’emblema di tale passaggio, di questa fluttuazione di intenti, riprendendo non solo le mefistofeliche bramosie della ben più celebre Lady Macbeth shakespeariana, ma anche ( e in modesta parte ) le singolarità introspettive della perturbante Teresa Raquin di Zola.
Un ritratto fisiologico, appunto, ove la vittima, più che sostituirsi, si fonde al carnefice, in un gioco di luci e ombre dagli inevitabili risvolti drammatici.
La fotografia, pregevole, è parte della stessa sceneggiatura, come a volerne sorreggere il peso, angustiato da forme riflesse di aspirazione e desiderio, in una dimensione non sovratemporale, ma a volte sospesa nell’ignoto.
Un ottimo esordio per Oldroyd, come lo è stato per Corbet con il suo The Childhood of a leader, entrambi alle prese con rivisitazioni di opere considerevoli.

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