Recensione su La terra dell'abbastanza

/ 20187.161 voti

Chi si accontenta rode / 9 Luglio 2018 in La terra dell'abbastanza

I fratelli D’Innocenzo esordiscono in maniera deflagrante nel mondo del cinema italiano, scrivendo e dirigendo, a neppure trent’anni, un film sincero, inclemente, doloroso e molto cinico, calibratissimo.

Guardando La terra dell’abbastanza, stupisce da subito la padronanza di mezzi e codici da parte dei gemelli di Tor Bella Monaca. Si dichiarano autodidatti: non hanno mai studiato cinema in maniera accademica. Però, hanno scritto un copione che non sbanda di un millimetro e hanno scelto, preparato e diretto attori giovani ma strabilianti con mano fermissima.
Fin da ragazzini, hanno giocato con le sceneggiature. Prendevano gli script dei film di Kubrick e Scorsese trovati in Rete e li riscrivevano. Si sono allenati come Naoto nella Tana delle Tigri. Per anni, hanno osservato, analizzato, manipolato, destrutturato e sviscerato i generi e i film che preferivano, elaborando -nel frattempo- il soggetto di quello che sarebbe stato il loro lungometraggio di debutto (e collaborando con Matteo Garrone alla sceneggiatura di Dogman).
Il risultato è notevole: il fatto che si tratti di un’opera prima è davvero il valore aggiunto a un film che, a prescindere dall'(in)esperienza dei suoi autori, è decisamente riuscito e fa ben sperare nei lavori futuri (per ora, si parla nientemeno che di un western al femminile).

Come in un film “famigliare” di Cassavetes, c’è un’incredibile intimità fra attori e macchina da presa. Campi strettissimi su volti senza corpi imprigionati in un contesto, quello della periferia romana, asfittico e privo, anche sensorialmente e non solo in termini metaforici, di prospettive. La camera stringe sempre sulle facce degli attori, incrementando il senso di costrizione che perseguita i personaggi. Spazi angusti, degradati, sovraffollati o lunari: i protagonisti del film vivono in un contesto, ben noto agli autori, in cui è complicato perfino avere speranza, da cui si esce grazie al sacrificio di terzi, camminando sui loro cadaveri.

Sulla carta, non solo per il contesto ma anche per via del rapporto di fraternità che lega i due protagonisti, questo film ricorda un sacco di cose: Gomorra, Suburra, le storie di Caligari… In realtà, La terra dell’abbastanza è altro, perché non cita nessuno degli esempi a cui sembra richiamarsi. Resta un film di difficile catalogazione, perché non è esattamente un noir, né un crime tout court. Piuttosto, è una storia di formazione piena di ombre che racconta della caduta imprevedibile in un abisso neppure immaginato, in cui si percepisce una follia (auto)distruttiva illogica e terrificante.

Il finale è una fucilata in pieno petto: “Che fai da mangià?”, chiede il padre di Manolo alla madre di Mirko. “Quello che c’è”, risponde lei. Perché lì, in quei disegni sociali tracciati da mani bizzarre, dove non ci sono punti di fuga, in cui la linea dell’orizzonte resta bassa e quasi affoga in una notte lunga e senza fine, chi si accontenta certo non gode, ma, almeno, sta alla larga dai guai.

2 commenti

  1. marcomaffei12 / 7 Ottobre 2018

    @stefania unico appunto: va bene l’appiattimento delle coscienze, ma passare da studenti dell’alberghiero a sicari, non è un po’ tirato…?

    • Stefania / 8 Ottobre 2018

      @marcomaffei12: po’ esse, ma, in realtà, non ho percepito nettamente la forzatura (magari, è un limite mio, eh). Mi è sembrato che, benché inizialmente non fossero propriamente dei piccoli delinquenti, i due ragazzi fossero (concedimi il termine infelice) avvezzi alla violenza (o, meglio, erano convinti di “conoscere” una certa idea di violenza). Scelgono di abbracciarla concretamente quasi per dimostrare di essere grandi, di non aver paura (invece, ne hanno tantissima), di essere uomini, ma, in realtà, sono impreparati e reagiscono “male” alle situazioni aberranti a cui assistono e a quelle che commettono personalmente.

Lascia un commento