Cupo e spaventoso: così si fa un film distopico / 21 Marzo 2023 in La terra dei figli
Và a vedere che la distopia è uno degli alvei narrativi in cui il cinema italiano contemporaneo si trova maggiormente a proprio agio.
Tra i film recenti architettati in contesti distopici, penso a Siccità di Virzì, Mondocane di Alessandro Celli, Piove di Paolo Strippoli, a suo modo (anche se distopico non è, ma presenta situazioni che ben si presterebbero allo scopo) “La guerra dei cafoni” di Davide Barletti e Lorenzo Conte (e, volendo ampliare il discorso anche alle produzioni seriali, mi vengono in mente le serie tv Anna e, dài, Il miracolo, entrambe di Niccolò Ammaniti).
Il film La terra dei figli di Claudio Cupellini, liberamente tratto dall’omonimo graphic novel di Gipi (che non ho ancora letto), mi sembra un buon esempio di questo tipo di racconto.
Cupissimo e spaventoso, in alcun modo rassicurante, il film post-apocalittico di Cupellini parla di un tempo relativamente prossimo in cui l’essere umano si è ridotto gradualmente a puro istinto di sopravvivenza, a uno stadio semi-primitivo, quasi animalesco.
La società civile propriamente detta è stata spazzata via. Non sembrano esistere forme di autorità, leggi, norme di condotta. Il mondo è allo sbando ed è umidissimo.
Come accade spesso in queste storie, la riproduzione umana non è più contemplata, per motivi legati all’apocalisse che ha avuto luogo o per esigenze “pratiche”.
Qui, di figli non ne esistono più, o quasi.
C’è chi li ha mangiati, come Chronos. C’è chi li ha cresciuti secondo la massima hobbesiana dell’homo homini lupus.
Esauriti i figli, l’estinzione è all’orizzonte. E, volendo, questa può essere una metafora della condizione attuale in Italia, un Paese tendente all’anzianità anagrafica, livoroso e traffichino, a natalità quasi annullata.
Del film, ho apprezzato tutto (per esempio, ottimo uso degli ambienti naturali e artificiali, esistenti o creati/adattati per il film), anche il disagio che mi ha trasmesso.
Il finale (pro)positivo non mi ha rincuorato granché e ho apprezzato anche il coraggio del film di non voler essere in alcun modo confortante.