Recensione su La profezia dell'Armadillo

/ 20186.188 voti

Buon risultato / 12 Settembre 2018 in La profezia dell'Armadillo

La storia del film si adegua al libro riprendendone le situazioni diventate cult fra i lettori (la madre impedita al computer, l’amico alienato Secco, le prediche esistenziali dell’immaginario Armadillo, l’insofferenza intestina fra i quartieri di Roma), e il fil rouge costituito dalla malattia dell’amica d’infanzia francese Camille.

Quell’umorismo romanesco che Zerocalcare ha codificato con tanto successo a fumetti non era in realtà inedito al cinema, e l’esempio è proprio il cinema dell’attore (che inizialmente avrebbe dovuto dirigere il film) Valerio Mastandrea e di tutta la banda di attori e comici romani che negli ultimi anni ha avuto grossa visibilità (vedi “Boris”, “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Smetto quando voglio”).

Chi ha amato il fumetto qui ne vedrà una versione annacquata (oltre che una inevitabile copia carbone), ma in realtà “La profezia dell’Armadillo” è una nuova istanza della suddetta comicità romanesca, e ne testimonia la vivacità e l’apprezzamento del pubblico, dentro e fuori il Grande Raccordo Anulare.

7 commenti

  1. Nadja / 20 Settembre 2018

    Roma è stato un punto focale per la nascita del nostro cinema e sta rivelando base florida come punto di rinascita, dalle serie tv ( Boris e Romanzo criminale in primis) ai film che hai citato te, primo smetto quando voglio, poi Non essere cattivo passando per Jeeg Robot e suburra.
    Non vorrei che ciò diventasse maniera e tutto ciò che viene da Roma sia poi comunque considerato valido (vedi quella cosa ignobile di Romolo e Giuly)
    e che il nostro cinema, ora che riparte, non racconti più solo Roma ma tutta la nostra nazione

  2. Stefania / 24 Dicembre 2018

    @elisa1996: sollevi una questione molto interessante. Se non ho capito male, dici che il “vecchio” cinema romano, quello che ha dato origine al Neorealismo, per esempio, sapeva essere più “nazionale” di quello di oggi, che, pur ambientato negli stessi luoghi e caratterizzato dallo stesso vernacolo, tende a essere troppo georiferito, cioé specchio di un contesto fisico e sociale limitato. Ho inteso correttamente? Se sì, ammetto che non ci avevo mai riflettuto sopra seriamente e, se sì, credo di trovarmi d’accordo con te. Se no, è l’occasione giusta per parlarne un po’ 😀

    • Nadja / 28 Dicembre 2018

      si esatto, hai inteso correttamente. Rischiamo di far solo film romani, va bene usare il vernacolo, va bene che il cinema nostrano stia partendo da Roma ma potrebbe diventare una cosa estremamente limitante.
      p.s. unica cosa non dico che il cinema neorealista sapesse essere più internazionale, dico che Roma fu la nascita del nostro cinema, ed ora è la rinascita ma non dobbiamo limitare quest’arte al solo piccolo racconto di una città.

      • Stefania / 28 Dicembre 2018

        @elisa1996: sono d’accordo: per essere “inclusivo”, il vernacolo, qualunque esso sia, dovrebbe essere un valore aggiunto, non esclusivo. Il rischio che si corre è proprio quello che dici tu: limitare il racconto a quello di una città, per quanto complessa e ricca di storie.

      • Francesco / 29 Dicembre 2018

        Preciso che io mi riferivo alla sola commedia in questo caso, ragione per cui non ho citato gli pseudogangster di natura televisiva e di derivazione americana che non ho mai apprezzato.
        Nel dramma possiamo portare due esempi recentissimi, coraggosi e pregiati, che si spostano a Napoli, per dire: L’amica geniale e Un giorno all’improvviso. (E il regista del primo è romano)
        Quando coglievo la tendenza romanesca intendevo identificarla per le sue caratteristiche, non additarla di velleità monopoliste. Anzi, l’opposto, ne lodavo la capacità di emergere con dignità cinematografica e a volte anche a prescindere dal vernacolo e dai riferimenti locali. Non vedo il pericolo di romanizzazione, anzi mi preoccupo spesso di come potrà essere percepito un film romanocentrico fuori Roma, per poi sorprendermi ogni volta del suo successo.

        • Stefania / 29 Dicembre 2018

          @franz: a me piacciono le localizzazioni, ma quando sono ben caratterizzate, quando, cioè, fanno emergere le peculiarità del luogo. Per questo, parlavo dell’uso del vernacolo come di un valore aggiunto e non esclusivo (cioè, capace di rendere un prodotto comprensibile solo a chi, più o meno, conosce già quel contesto).
          Per esempio, ecco perché, fra le varie cose, La profezia… mi sembra un film incompleto/imperfetto: Rebibbia è uno sfondo “pittoresco” di cui si vede qualche scorcio e che non ha un vero peso nell’economia della storia (cinematografica). Così, gli atteggiamenti, il gergo, i riferimenti dei personaggi (deficitati da un sonoro in presa diretta forse non proprio al top) sono cirscoscritti e, appunto, esclusivi.
          Siccome gran parte della produzione cinematografica e televisiva italiana arriva da Roma e dintorni, forse, ormai (la butto lì: in realtà, non ho nessun dato in merito, è una mia blanda supposizione), si dà per scontato che il pubblico del resto d’Italia sia abituato a una certa “estetica”, che -insomma- sappia sempre di cosa si sta parlando per via di una certa familiarità veicolata dai vari media. A registi come Garrone e Costanzo (che citi per via de L’amica geniale) , ma anche a Sorrentino, Virzì e pure a Soldini mi permetto di riconoscere una sensibilità tale per cui mi pare riescano a raccontare bene i luoghi, usando vernacolo e modi in una maniera -come posso dire?- empatica (non è il termine giusto, pardon). Fra i giovani, in questo senso, quest’anno mi hanno impressionato positivamente i gemelli D’Innocenzo con La terra dell’abbastanza (che, pure, è un film romanissssssimo).

          • Francesco / 29 Dicembre 2018

            (ancora mi manca, La terra dell’abbastanza)

Lascia un commento