Recensione su La pelle che abito

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24 Gennaio 2012

E’ intrigante, cupo e poco almodovariano anche se lui gli ingredienti ce li mette tutti. Ma il registro scelto per analizzare il tema centrale cozza con le code tipiche del suo cinema. E l’effetto è un po’ distonante.

Curioso come si accavallino film che ruotano attorno alla corpo, penso al cigno nero che era carne e suoi derivati, qui è pelle e suoi derivati. La pelle è una superficie estesa che ci consente di comunicare con l’esterno, l’altro da noi, è la nostra prima relazione con ciò che noi non siamo, ma che ci consente di essere e modellare cosa noi siamo in quel confine indefinito che non governeremo mai che separa soggettività (sempre che si riesca a definirla alla fine) e oggettività (sempre che si riesca ad isolarla).

Se c’è un uomo al centro del film è un vedovo pazzo e tradito che crolla alle disgrazie della sua vita che investono la sua relazione con il femminile, un uomo fermo e bloccato che esaspera la sua professione di manipolatore dei corpi (chirurgo estetico). E continua il gioco del doppio, due fratelli, due donne, due madri,un essere doppio, due quadri tizianeschi con le le carni e i corpi che trionfano lungo il corridoio che porta alla prigione della ragazza, due violenze, due personaggi senza volto che campeggiano nello studio/camera del chirurgo un po’ frankenstein (il quadro riflette e svela l’essenza del chirurgo che è il vero personaggio anonimo e senza volto). Almodovar non tiene fuori da questo film claustrofobico e abbagliante nella fotografia i suoi temi preferiti quali l’agnizione, la diversità, l’eccentricità e le passioni, la genitorialità nascosta, ma sono come corollari imperfetti e, mi sembra, anche fuori luogo rispetto alla relazione fra la creatura e il suo fattore, all’ipnosi del secondo e al dominio della prima che, scarnificata e calata dentro un’altra pelle, subisce una trasformazione interiore che ne fa una donna forte, volitiva, imperiosa e violenta, una donna, questa sì, pienamente nello stilema di Almodovar.

La messa in scena mi è piaciuta perchè è disseminata di piccoli indizi, quali manichini, fantocci, creazioni e costruzioni, con un parallelismo perfetto fra l’arte sartoriale e quella chirurgica, molto belle quelle che raccontano il confronto voyeristico fra Banderas e la Anaya (di una bellezza esasperante e con il dono di due occhi magnifici, estremamente brava per tutto il film), dove gli sguardi e la presenza del corpo trionfano in maniera quasi dolorosa in una sfida che pervade il film e suggerisce l’indomita volontà della ragazza ben prima di scoprirne il motivo.

Se il dicorso della trasformazione attraversa quello dell’identità in fondo il finale è molto aperto: l’identità di Vera è determinata sì da un corpo che non le appartiene, che non ha scelto, ma che la definisce completamente senza poter dimenticare, però, la radice del suo io.

Davvero insopportabili tutte le inquadrature regalate all’onnipresente bmw e tutto quell’insistere su marche e firme varie, terribile

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