Recensione su La pazza gioia

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Recupero della gioia / 3 Giugno 2016 in La pazza gioia

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Applaudiamo Virzì e il suo cinema, che è il “nostro” cinema italiano che piace, che sa essere propositivo anche nelle convenzioni che gli appartengono da anni. E non è facile. “La pazza gioia” riesce a muovere le due sensazioni basilari e primarie della fruizione cinematografica: commuovere e far ridere. E lo fa con un equilibrio mai semplice, ma fortemente ricercato, in questo caso, da Virzì, anche in sede di sceneggiatura con la Archibugi, e dalle attrici, e infine trovato. E quando piangendo ti ci scappa da ridere, o ridendo pensi al dramma che si nasconde dietro quella risata, è ovvio, vuol dire che stai riflettendo: e “La pazza gioia” riesce anche in questo.
Il titolo racconta già molto delle tematiche e dello stile del film: quella inscenata è a tutti gli effetti la storia di un recupero della gioia da parte di due “pazze” donne, l’una molto diversa dall’altra, l’una con il suo trascorso del tutto personale, ma pieno di vuoti, lacerazioni, violenze (soprattutto interiori) e scelte sbagliate. A riportarle sul grande schermo sono due attrici che confezionano due prove straordinarie per intensità drammatica, improvvisazione, agio e naturalezza nel ruolo: Valeria Bruni Tedeschi è Beatrice, la chiacchierona che sa tutto e governa le situazioni, e Micaela Ramazzotti, la giovane e fragile Donatella, che si lascia guidare, in questo rapporto a due simbiotico e complementare. In cura presso Villa Biondi, una comunità terapeutica per soggetti affetti da disturbi mentali nei pressi di Pistoia, le due, durante un’uscita, riescono a scappare, e a concedersi giorni di piena libertà.
La fuga diventerà per entrambe un viaggio di formazione, cementificherà alla base un rapporto di amicizia nato quasi per caso e per bisogno, esaltandone l’importanza e la bellezza. Per Beatrice il viaggio significherà affrontare il proprio passato, misurarsi di nuovo con i suoi abissi interiori, ma trovare un appiglio per non precipitarvi: in Donatella, sicuramente, ma anche nella consapevolezza della sua condizione. Per Donatella invece la meta sarà quel figlio strappato, ma comprenderà di non averla raggiunta vedendolo o giocando con lui tra le onde del mare, bensì che sia qualcosa di possibile, che esiste (e già è una grande consolazione) e che si trova solo un po’ più in là e più avanti, dentro una volontà che è esclusivamente sua.
Virzì le accompagna nel viaggio e si diverte con loro, si commuove con loro. Si lascia andare alla loro imprevedibilità: così i registri, in un ordine formale preciso e mai stravagante, si mescolano e amalgamo, attuando processi creativi multipli, sia tecnici (su tutti la fotografia di Radovic) che artistici, stimolanti. La commedia diventa dramma, la tragedia lascia il passo all’ironia, la risata contagiosa al silenzio viscerale, compassionevole. Se le due protagoniste spesso, in un rovesciamento logicamente ironico dei ruoli, additano altri come pazzi, noi spettatori è quello che pensiamo di loro quasi per l’intero film, scoprendo poi, in congiunture precise della loro storia, di non essere così lontani invece: o a volte, paradossalmente, di volerlo essere un po’ “pazzi” come Beatrice e Donatella. Per darsi alla pazza gioia, senza le afflizioni prodotte da una mente che funziona regolarmente.
Con un film che a volte si perde in scivoloni da sceneggiatura “propriamente” italiana, soprattutto nella didascalia fastidiosa di certi dialoghi, e forse anche da eccessiva durata, Virzì ragiona quindi sul tema della diversità, non solo e non tanto dicendoci che esiste il diverso, ma, come sostenuto anche da altri autori nella storia del cinema, che “diverso” è meglio: che lo sia poi il soggetto che sta dentro una comunità, o quello che sta fuori, non fa differenza.

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