M / 25 Gennaio 2021 in La donna senza testa

Come in La cienaga e La Nina santa, la sempre interessante Lucrecia Martel scava nel cuore arido della borghesia argentina con l’occhio clinico di chi scopre abissi di colpevolezza o di indifferenza in un solo sguardo. La donna senza testa del titolo è una signora ancora piacente, l’aria trasognata e delusa di chi ha avuto tutto ma non abbastanza, che in apertura investe qualcosa (o qualcuno?) su una strada di campagna. È un attimo, l’auto ha un sobbalzo, poi un altro, lei rallenta, si ferma, respira a fondo, sempre in primo piano, lotta contro se stessa ma non scende, non si volta nemmeno, riparte. Basterebbe questa scena a dire la forza della Martel. C’è tutto: l’inerzia, la viltà, la passività, il disprezzo segreto di sé e degli altri. Nei giorni successivi Veronica è quasi catatonica, ma forse ha davvero investito solo un cane, o forse è la memoria che comincia a tirarle brutti scherzi.
La vita va avanti, Veronica ha un marito, una figlia, un lavoro, uno o forse più amanti. E quando finalmente cede e si confida, nessuno le crede: ma figurati, eri stanca, ti sei sbagliata, non è successo proprio niente. Il problema, paradossalmente, è che la Martel è così brava che La mujer sin cabeza gira un po’ in tondo e ogni scena aggiunge un tassello a un quadro chiaro fin dal principio. Specie per chi già conosce il suo gusto crudele per la borghesia stagnante, le famiglie espanse e soffocanti, le acque torbide come i rapporti in cui sguazzano i suoi personaggi. I primi dieci minuti sono altissimi, gli ultimi dieci altrettanto, in mezzo c’è forse più esibizione che vera bellezza.

Leggi tutto