Recensione su La famiglia Willoughby

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La famiglia Willoughby
Regia:

Horror o film per la famiglia? / 11 Maggio 2021 in La famiglia Willoughby

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Sei stelline e mezza)

Mi sento di poter affermare che il film Netflix a cartoni animati La famiglia Willoughby non è altro che un horror travestito da commedia per le famiglie.
Il che, per quel che mi rigurarda, va benissimo e ha almeno un aspetto molto positivo: la manipolazione dei cliché del racconto gotico in chiave ironica (un po’ come fece Charles Addams creando la “sua” Famiglia Addams).

Dietro un’apparenza divertita ed edulcorata da dettagli fisici esasperati (gambine, braccine, nasetti, capelli di lana rosa (?)), questo film parla (soprattutto) di abbandono, morte, psicosi e disperazione.

La coppia di genitori anaffettivi e, in particolare, il padre garrulo (Martin Short, nella versione originale, e, correttamente, visti i precedenti con l’attore americano, l’ottimo Mino Caprio in quella italiana) mi hanno dato i brividi. Visto che anche la moglie (Jane Krakowski) ha i capelli come lui (in teoria, quella chioma lanosa appartiene ai soli Willoughby), non mi stupirei se la loro relazione ossessiva non fosse altro che un rapporto incestuoso. Spaventosa (e molto vittoriana) la battuta paterna: “Com’è possibile che continui a capitare?”, quando scopre che, in casa, c’è un nuovo neonato (la trovatella Ruth).
Tutto questo, per me, vale 10 pollici alzati: insomma, La famiglia Willoughby è una specie di Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett e la storia della bambina Sophie ne Il petalo cremisi e bianco trasposti in pop e ipertrofica CGI.

Nel complesso, purtroppo, il film diretto da Kris Pearn (Piovono polpette 2), Cory Evans e Rob Lodermeier (entrambi alla prima regia) e è narrativamente poco coeso e alterna momenti “estremi” come quelli descritti ad altri più convenzionali o, addirittura, così pindarici da sembrare scaturiti dalla fantasia di un bambino (vedi, tutte le parentesi con Ruth e/o il Comandante Melanoff che, a proposito, esteticamente, sembra uscito da un’esperienza lisergica tipo The Yellow Submarine, <3 ). La tata (Maya Rudolph) è un personaggio simpatico e tenero, ma troppo prevedibile e stereotipato. Il gatto (Ricky Gervais, che è anche tra i produttori del film) è cinicamente bellissimo (e ha proprio un bel character design), ma sembra un corpo estraneo, rispetto al complesso. Il finale accomodante è la definitiva nota dolente del film. Sempre che non lo si voglia intendere come il sogno di uno dei giovani Willoughby morente, of course.

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