Il padre incerto è, e incerto deve rimanere / 11 Settembre 2021 in La caja

Se c’è una cosa che ci ha insegnato il cinema indipendente è che se tuo padre ha abbandonato la famiglia un diamine di motivo ci doveva essere, e tu non lo vuoi scoprire veramente.

Eppure la mancanza della figura paterna sembra essere un motore inestinguibile di tante storie. Proprio fra i festival di Venezia e Toronto quest’anno ne ho beccate almeno tre sul tema: “Amira”, “7 prisioneiros” e il nuovo film di Lorenzo Vigas “La caja”.

Il tema del rapporto padre-figlio poi lega in una trilogia le prime opere di finzione di Vigas: “La caja” ne è la conclusione, dopo il cortometraggio “Los elefantes nunca olvidan’” (2004) e l’esordio al lungometraggio “Ti guardo” (2015), che vinse il Leone d’oro e fu il primo film venezuelano in concorso alla Mostra di Venezia.

Con il brasiliano “7 prisioneiros”, il film di Vigas condivide anche il tema del caporalato, piaga che evidentemente affligge tanto l’Italia quanto il Brasile e il Messico (*pretends to be shocked*).

Come già in “Ti guardo”, anche qui i tempi si dilatano e i dialoghi si rarefanno, per lasciare la voce a corpi muti, sguardi smarriti eppure imperturbabili. È in quella progressione di sguardi sempre uguali di fronte alla crescente indignazione che si costruisce il personaggio del giovane Hatzín (Hatzín Navarrete). Difficile assistere alla sua lenta perdita dell’innocenza nelle grinfie del caporale/padre Mario (Hernán Mendoza) e alla sua finale perdizione.

A qualcuno questa parabola può sembrare manipolatoria, il protagonista troppo sprovveduto e gli eventi che lo travolgono arbitrariamente tragici. Ma il protagonista è un adolescente orfano senza altri riferimenti morali se non quelli criminali, che altre scelte può fare? Con che strumenti può maturare una qualche ostilità per lo status quo? E lo status quo, quello delle sparizioni delle operaie nel nord del Messico, è pure una storia che Vigas voleva raccontare.

Forse nelle intenzioni di Lorenzo Vigas c’è proprio quella di opporsi ai racconti di formazione più convenzionali del cinema americano, dove le sbandate sono riti di iniziazione per prepararsi però a una vita decente. Capita spesso, quasi sempre, che gli autori sudamericani ci raccontino come da loro non c’è redenzione e non abbia senso raccontarsi frottole, a costo di rendere l’esperienza di visione del film meno conciliante.

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