ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama
Vinterberg attinge alle proprie memorie e, insieme al fidato Tobias Lindholm, ha scritto una piéce teatrale, Kollektivet, diventata ora un lungometraggio cinematografico.
Come nel “dogmatico” Festen, il contesto è quello di una famiglia, benché lo scenario sia atipico come può esserlo quello di una comune degli anni Settanta. Se nel lavoro del ’98 veniva sottolineato il concetto che una famiglia non la si può scegliere (e gli accenni alla trascorsa vita privata dell’architetto protagonista sembrano richiamare ancora tale assunto), ne La comune viene ipotizzato che un’alternativa al nucleo tradizionale può esistere. Ma può funzionare?
A differenza del bel film svedese Together (2000) di Lukas Moodysson, la pellicola del regista danese non pare intenzionata a illustrare le dinamiche di tale nucleo sociale artificialmente costituito. E ritengo, purtroppo, che, pur non “obbligatorio”, questo sia il primo passo falso del suo racconto: questo nido sovraffollato, infatti, non sembra aver ragion d’essere, né ai fini sociali, né a quelli narrativi. I personaggi che lo abitano sono totalmente scollati fra loro, le azioni dell’uno non hanno ripercussioni sugli altri, in alcuna maniera, essi esistono in qualità di monadi indistinte, incapaci di fornire agli altri alcun reale supporto materiale o emotivo e perfino di rappresentare un impaccio.
La comune di Vinterberg nasce per via del capriccio di una borghese annoiata (un’ottima Trine Dyrholm, premiata a Berlino 2016) che (ancora a conferma dell’inutilità del pretesto narrativo) non viene punita (o premiata) dalla realizzazione del suo desiderio: la sua profonda e devastante crisi personale non sembra avere radici nella nuova condizione socio-famigliare nella quale ha scelto volontariamente di immergersi.
Anche il tradimento che sembra essere all’origine di questo sfasamento non pare nascere in seguito alla costituzione della comune: si verifica all’improvviso, senza alcuna causa apparente/scatenante.
Insomma, non è chiaro perché Vinterberg abbia deciso di mettere in scena la vita in una comune, se, a conti fatti, tale condizione non genera nessun tipo di conflitto o di maturazione che non avrebbe potuto trovare comunque espressione.
Da La comune emerge abbastanza chiaramente un solo elemento: l’amore. Quello desiderato, quello sopito, quello scoperto, quello sbagliato: i personaggi in scena anelano l’amore come forma di completamento, poiché pare che ciascuno di essi “non si basti” da solo.
La quattordicenne che si concede ad un ragazzotto abbastanza insipido e, almeno inizialmente, decisamente materiale sembra cercare non tanto una forma di emancipazione quanto una nuova forma di affetto, da afferrare alla prima occasione, che non è in grado di trovare né nella sua famiglia tradizionale, né in quella allargata da cui sembra volersi allontanare presto.
In definitiva, gli intenti del cineasta danese hanno contorni troppo incerti per definire questo film un’opera compiuta, sia in senso positivo che negativo.
La sensazione finale è quella di aver assistito ad uno spettacolo dal grande potenziale, capace (questo sì) di alleggerire in maniera sorprendente anche i passaggi più drammatici e vagamente ambigui, ma esplicatosi in un desolante nulla di fatto.
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