All’anima di Marsellus Wallace! / 6 Maggio 2016 in Un bacio e una pistola

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Che film assurdo!
Aldrich mi ha spiazzata: mi aspettavo un noir canonico, con un detective pulp impelagato in un caso pericoloso più grande di lui, qualche bella pupa, botte e revolver. Ok, sì, c’è tutto questo, ma anche molto di più.

In primis, un antieroe con un nome che è tutto un programma: Mike Hammer, Mike il Martello, un tizio esplicitamente immorale che ama le macchine lucide e sportive e che (complice un monoespressivo Ralph Meeker) non si scompone neppure quando scopre che la sua auto è imbottita di candelotti di esplosivo provenienti direttamente dalla scorta di Will Coyote o quando disarma un brutto ceffo intenzionato a punzecchiarlo con un coltello a serramanico, un tombeur de femmes capace di mosse à la “dopo tre giorni muori”, con una pelle più dura del cuoio.
A seguire, ci sono tanti di quei personaggi secondari che sembra di stare su un bus all’ora di punta: perdere le fila, soprattutto riguardo alla loro utilità narrativa, è un attimo. Pare che Truffaut abbia dichiarato che sia impossibile provare a spiegare la trama di Kiss me deadly: umilmente, concordo.

Gli ammiccamenti di natura sessuale, torbidi e divertiti, sono dietro l’angolo, tra corpi innaturalmente sudati, strusciamenti continui di membra e fisici femminili ai limiti delle supervixen di Russ Meyer pronti ad esplodere sotto gli abiti (il caricaturismo fisico è un’altra costante del film: se il volto di Hammer è quasi noioso, nella sua scarsa espressività, di contro la pellicola pullula di facce grottesche, corpi caricaturali, pelosi, sudati, anche le ragazze hanno tratti lontani dai cliché hollywoodiani): la tensione erotica è latente in ogni incontro femminile di Hammer, attratto ed attraente nei confronti dell’argomento.

E, poi, c’è il mistero misterioso che incombe sulla vicenda sottoforma di valigetta (che, poi, valigetta non è: sembra il cubotto altrettanto misterico di Mulholland Drive di Lynch contenente il prezioso carico appartenente a Marsellus Wallace di Pulp Fiction), incandescente non solo in senso figurato: una illogica e naif componente sci-fi erompe in un film che, oltre a tutti i crismi del noir erotico, sottende anche Guerra Fredda e Maccartismo.
Eravate state avvertiti: guardare questo film è come salire su un ottovolante impazzito, in cui si travalica persino la sospensione della realtà tipicamente cinematografica.

Tecnicamente, infine, il lavoro di Aldrich abbonda di sperimentalismi e ardite soluzioni: inquadrature sghembe, sovente costruite dal basso verso l’alto, la macchina da presa che si muove in un impercettibile interstizio ideale tra quarta parete e spettatore, un uso quasi espressionista di un numero indefinito di rampe di scale, un pianosequenza (quello della palestra di boxe) che permette allo spettatore di vagare in un ambiente fatto di carne e guantoni ma che gli impedisce scientemente di vedere l’oggetto del dialogo tra Hammer e il gestore della palestra. E vogliamo parlare di quei titoli di testa che scorrono al contrario?
“Di quando è questo film?”, mi chiede il compagno di divano.
“1955”, rispondo.
“Apperò…”.

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