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Kantoku · Banzai!

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Takeshi Kitano, tra la parodia del cinema e di sé stesso / 28 Luglio 2014 in Kantoku · Banzai!

Il film si presenta come una sorta di confessione, dove il regista mostra il desiderio di cimentarsi con un cinema nuovo per lui, perlopiù lontano dall’abusato yakuza movie e dal tono violento che lo contraddistingue.
Kitano in questa pellicola decide di prendere in giro e prendersi in giro allo stesso tempo. Prende in giro innanzitutto il cinema, trattandone tutti i generi in forma parodistica e comprimendoli in un’unico lungometraggio (un po’ come aveva già fatto in Getting Any?) e non risparmiando nemmeno il cinema americano (c’è un’esplicita citazione a Matrix, ad esempio). Prende in giro allo stesso tempo anche sé stesso, ironizzando sia sui suoi lavori precedenti che sul suo ruolo di regista.
E’ probabilmente la pellicola più particolare elaborata da Kitano, nonché un esperimento curioso ed interessante.
Il regista dichiarò pressapoco così in un’intervista “Quando devo far ridere, mi faccio prendere un po’ troppo la mano”. La seconda parte del film risulta in effetti eccessivamente demenziale, rischiando un po’ lo scivolone a cui era andato a mio parere incontro anche Getting Any.
Ma sostanzialmente si tratta di un grande gioco dell’autore, e sta a noi scegliere se stare con lui o meno.

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Kitano mette in scena la propria crisi creativa con ironia e arguzia / 5 Giugno 2011 in Kantoku · Banzai!

Che Takeshi Kitano sia un genio del cinema è indubbio. Basti pensare, infatti, ai tanti capolavori che ha diretto: “Violent Cop”, “Il silenzio sul mare”, “Sonatine”, “Hana-Bi”, “L’estate di Kikujiro” e “Dolls” (tra tutti, il mio preferito). E’ altrettanto vero, però, che ultimamente sembra soffrire di una crisi di ispirazione. Lui stesso lo ammette all’inizio di questo film, aggiungendo inoltre di non voler mai più realizzare pellicole sui gangster come lo erano “Sonatine” e “Hana-Bi”, che poi sono i film che lo hanno reso famoso tra i cinefili di tutto il mondo. Quindi, cosa fare quando non si sa più che storie raccontare? Semplice: si mette in scena la propria crisi creativa. In fondo lo aveva già fatto Fellini con quel capolavoro che è “Otto e mezzo”. Kitano come Fellini quindi? Sì e no: sì perché l’idea di base, il regista in crisi professionale, è la stessa; no, invece, per il semplice motivo che questo film non è nemmeno paragonabile al capodopera felliniano. “Glory to the Filmmaker”, comunque, merita di essere visto: primo perché è divertente; secondo perché il Kitano interprete, sebbene possegga due sole espressioni, con o senza gli occhiali, è sempre in grado di lasciare il segno con la sua sola presenza. Anche se bisogna ammettere che qui eccede un po’ troppo in narcisismo. Ciononostante, come appena detto, la pellicola riesce a divertire; certe cose, poi, sono addirittura geniali: ad esempio l’idea del manichino che sostituisce Kitano in alcune situazioni (occhio all’incipit, forse il momento più esilarante del film), oppure la presa in giro del cinema di Ozu, suggellata dall’irriverente affermazione “a chi può interessare un film dove gli attori passano buona parte del tempo a lamentarsi e a bere il tè?” (divertente, certo, però personalmente non la condivido affatto). Nel complesso, tuttavia, “Glory to the Filmmaker” non riesce a sfuggire alla trappola della ripetitività, tanto è vero che alla lunga il gioco – soprattutto per i non ammiratori del maestro giapponese – rischia di farsi un po’ noioso.

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