Storie di fantasmi giapponesi / 28 Maggio 2014 in Kaidan

Alcuni film sono talmente innovativi da riuscire a sfuggire ad ogni tipo di classificazione. Una delle cose più belle del cinema è che quando crediamo di aver visto tutto, e perciò pensiamo che ormai non ci sia più niente in grado di sorprenderci veramente, improvvisamente ci capita di imbatterci in un film che ci smentisce clamorosamente, dimostrandoci così che nel mondo del cinema tutto è possibile e che si può sempre inventare qualcosa di nuovo che ha il potere di lasciare lo spettatore a bocca aperta. E di fronte alla bellezza e alla grandezza di questa pellicola diretta da Masaki Kobayashi, regista di capolavori come “Harakiri” (1962) e “L’ultimo samurai” (1967), si rimane davvero senza parole.
“Kwaidan” (1964) è un horror straordinario, al punto che mai come in questo caso la definizione di horror appare quantomeno riduttiva. Perché in questa folgorante pellicola Kobayashi riesce a trascendere il genere fino ad arrivare a realizzare qualcosa di realmente unico e assoluto (le scene di battaglia del terzo episodio sono le più originali che si siano mai viste). Ispirandosi ai racconti di Koizumi Yakumo (scrittore greco di origine irlandese, nato come Lafcadio Hearn, che si trasferì in America in giovane età, per poi emigrare successivamente in Giappone, dove si naturalizzò con il sopracitato nome), Kobayashi mette in scena quattro episodi incentrati su altrettante storie di fantasmi.
Nel primo, “I capelli neri”, un samurai (Rentaro Mikuni) ritorna dalla moglie (Michiyo Aratama) che aveva abbandonato: i due passano la notte insieme, ma al mattino successivo lui avrà una brutta sorpresa. Nel secondo, “La donna della neve”, due taglialegna, il vecchio Mosaku (Jun Hamamura) e il giovane apprendista Minokichi (Tatsuya Nakadai), dopo una dura giornata di lavoro passata a tagliare piante in un bosco, mentre si incamminano sulla strada di casa, vengono sorpresi da una tormenta di neve, a causa della quale sono costretti a rifugiarsi in una baracca sulla riva di un fiume; soltanto uno dei due riuscirà ad uscirne vivo. Nel terzo, ”Hoichi-senza-orecchie”, un giovane musicista cieco che suona la biwa, Hoichi (Katsuo Nakamura), rievoca le gesta della celebre e cruenta battaglia navale che si svolse a Dan-no-ura, nello stretto di Shimonoseki, nella quale si scontrarono i clan Heike e Genji; essendo non vedente, il ragazzo non si rende conto che è proprio per i fantasmi dei combattenti appartenenti al primo clan che ricorda il conflitto nel quale questi perirono sotto i potenti colpi dei rivali. Nel quarto, ”In una tazza di tè”, nel primo giorno del quarto anno dell’era Tenwa, un samurai, Kannai (Kanemon Nakamura), al servizio del nobile Nakagawa Sado, mentre il reggimento di cui fa parte effettua una sosta al tempio di Hongo, si ritrova ossessionato dalla presenza di un uomo, Shikibu Heinai (Noboru Nakaya), di cui ha inghiottito lo spirito.
Servendosi dell’ottima sceneggiatura di Yoko Mizuki, che delinea i caratteri dei personaggi in modo irreprensibile, Kobayashi gira un film di centosettantacinque minuti composto da quattro episodi autonomi e dalla durata variabile (il più lungo è il terzo, il più breve il quarto), in cui amore, morte, solitudine e follia si rincorrono senza soluzione di continuità. Attraverso uno stile di regia ricco di affascinanti e fluidi movimenti di macchina, il regista riesce a creare un’atmosfera magica e spettrale allo stesso tempo che incanta e inquieta profondamente lo spettatore.
Introdotto da titoli di testa che da soli valgono la visione, continuamente in bilico tra realtà e incubo, “Kwaidan” (vincitore, nel 1965, del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes e nominato agli Oscar, nel 1966, come Miglior Film Straniero), tra porte che si aprono da sole e chiome di capelli che fluttuano nell’aria, tra cieli che sembrano avere mille occhi e lugubri cimiteri popolati da spiriti, è un film mirabile, stupefacente, allucinato e allucinante, che si avvale di immagini sbalorditive che emanano una forza poderosa e un fascino rapinoso anche per merito delle magistrali e suggestive scenografie create da Shigemasa Toda e dell’incredibile e meravigliosa fotografia di Yoshio Miyajima (il secondo e il terzo episodio stupiscono per inventiva scenografica ed eleganza estetica).
Da menzionare pure il fondamentale contributo del grande Toru Takemitsu, autore della splendida colonna sonora: la sua musica ipnotica è perfetta per sottolineare lo smarrimento progressivo che coglie i protagonisti delle varie storie, contribuendo in tal modo ad acuire l’inquietudine che pervade l’intera pellicola. Immaginifico, geniale, visionario, folle: “Kwaidan” fa parte di quella ristretta cerchia di film che, una volta visti, non si dimenticano più. Un’opera solenne e imperdibile.

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