Utile ma didascalico / 20 Agosto 2020 in L'affido

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Candidato al Leone d’Oro a Venezia 2017, il film L’affido di Xavier Legrand ha vinto il Leone d’Argento per la regia e il premio Luigi de Laurentiis (Leone del futuro) per la miglior opera prima, nonché svariati César, tra cui quello per il miglior film, ricevendo buone accoglienze in diversi festival internazionali (come Toronto e San Sébastian, dove ha vinto il premio del pubblico).

Il film di Legrand, che parla di violenza domestica e apparato legale e legiferante cieco e sordo, sembra inscriversi nel solco narrativo ed estetico naturalista, con accenti di denuncia sociale, di un certo cinema francofono, vedi i Dardenne, Stéphane Brizé, Laurent Cantet…
Estremamente asciutto e, quindi, efficace nella messinscena, L’affido prova a raccontare una storia di soprusi fisici e psicologici all’interno di una famiglia, passando -dal punto di vista cinematografico- dal dramma famigliare ai toni del thriller e, perfino, nelle sequenze finali, dell’horror.

Per quel che mi riguarda, esulando dal suo indubbio valore sensibilizzatore, L’affido ha il grosso difetto di essere troppo didascalico. I personaggi sono (troppo correttamente) sterotipati (anche dal punto di vista fisico), coi “buoni” da una parte e il “cattivo” dall’altra. Forse, Legrand ha scelto il racconto più comune, quello più prossimo all’immaginario di gran parte del pubblico, per veicolare più efficacemente il messaggio. Resta il fatto che, fin dalle prime battute del film, è abbastanza evidente quale potrebbe essere l’evoluzione della vicenda.

Bravi gli interpreti, a partire dal giovanissimo Thomas Gioria, passando per l’urside Denis Ménochet e Léa Drucker.

(Sei stelline e mezza)

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