Wes Anderson il giapponese / 11 Maggio 2018 in L'isola dei cani
Wes Anderson fa un’incursione nella cultura giapponese, mostrando esplicitamente al pubblico quanto le tradizioni estetiche e narrative del Sol Levante siano radicate in lui e nella sua cinematografia. Qui come mai prima d’ora, forse, i tipici paradossi wesandersoniani, le situazioni estreme e surreali, il piacere per la composizione geometrica, la compostezza formale unita a un’ipertrofica sovrabbondanza di dettagli (e di dialoghi verbosi!) mostrano quanto, più o meno consciamente, il regista texano abbia subito nel tempo l’influenza della cultura nipponica e, ora, sia in grado di fornirne una personale versione.
In questo film, emerge l’amore contraddittorio di giapponesi e Anderson per la contaminazione (di tempi, di stili, di tradizioni, di elementi folkloristici e massmediali).
In sostanza, L’isola dei cani propone argomenti già trattati dal regista, però li pone all’interno di una nuova cornice estetica e (a)temporale. Come da tradizione, sono la separazione, l’incomprensione, la fuga, l’avventura e la risoluzione/il ricongiungimento. Dal punto di vista narrativo, di inedito rispetto al passato, c’è la proposizione di argomenti legati contemporaneamente alla storia e all’attualità. L’esilio e l’isolamento dei cani richiama altri episodi di segregazione realmente avvenuti o in corso nella società umana.
La sublimazione della tesi in un contesto animale e animato alleggerisce la drammaticità dell’argomento e, allo stesso tempo, consente in qualche modo di astrarre la violenza (fisica ed emotiva) presente nel film.
Ho ravvisato un elemento comune a mio avviso molto interessante con il precedente lungometraggio animato di Anderson, Fantastic Mr. Fox. Lì Mr. Fox e qui il cane Chief dicono chiaramente: “(Faccio quel che faccio, perché) sono un animale” (Mr. Fox, in realtà, rincara la dose specificando di essere un animale selvatico). Al di là dell’aspetto elegante (suo e delle sue opere), la natura animalesca e l’istinto ferino sembrano elementi imprescindibili della filosofia di vita di Wes Anderson, o, perlomeno, l’autore ne è quantomai affascinato e interessato. Dopotutto, i suoi personaggi sono perennemente in fuga, alla ricerca di se stessi e di una natura personale dimenticata, smarrita in mezzo alle imposizioni dettate dalla famiglia e dalla società. Tutto questo, però, si affida a un paradosso di natura artistica davvero imbarazzante: pupazzi (e attori/doppiatori) soggiaciono alla volontà del creatore/artefice e non fanno altro che raccontare quello che aggrada a lui, in una rappresentazione parziale (seppur positiva e nobile) della realtà/fantasia.
In sostanza, il film non mi ha colpito dal punto di vista del racconto, davvero sempre simile a se stesso. In particolare, a dispetto di lacrime diffuse a profusione dai personaggi, cosa che non ricordo in altri lavori di Anderson, ho trovato confermata l’asetticità della rappresentazione dei sentimenti. Non che questi non siano presenti, anzi. Si parla di affetto, amicizia, sacrificio in nome dei suddetti. Ma, come di consuetudine, Anderson ha un modo appassionato eppure impacciato di metterli in scena, risultando schematico, rigido.
Certamente, sono rimasta estremamente impressionata dalla resa tecnica del lungometraggio. Dire che l’animazione in stop motion di questo lavoro è sopraffina non è solo banale, ma superfluo. A un certo punto, durante la proiezione, mi sono trovata assurdamente a pensare che i pupazzi in scena fossero dotati di vita propria, tanto i loro movimenti e la capacità di diventare familiari in uno schioccare di dita fosse fluido e naturale.
La qualità generale della messinscena (e, quindi, la maestria registica di Anderson a cui si abbinano artigiani sopraffini, Desplat compreso, senza offesa) è incredibile e travalica qualsiasi metro di giudizio.

Curiosità: perchè non hai messo il voto?
@paolodelventosoest: perché non so che voto dargli, non so quale criterio seguire per esprimermi in termini analitici. Ogni tanto, (mi) succede 🙂