I Love Dogs! / 10 Maggio 2018 in L'isola dei cani
A volte ci dimentichiamo chi davvero ci fa sentire bene, a volte capita di non dare troppa attenzione o troppo peso a ciò che ci circonda e che ci aiuta a mantenere il sorriso. Che siano persone o animali, fa poca differenza.
Wes Anderson, con il suo ultimo lavoro, prova a rammentarci quanto sia importante tutto questo.
Isle of Dogs nasce come un film d’animazione che parla di integrazione sociale e difficile convivenza tra specie diverse, ma in fin dei conti è un ritratto del nichilismo dell’essere umano, pronto addirittura a sbarazzarsi dei suoi amici a quattro zampe per puro egoismo.
Si perchè dietro alla trama del film c’è un sentimento di rivalsa e di vendetta, sentimenti decisamente riprovevoli.
La storia inizia nel lontano passato, quando la famiglia Kobayashi, amante dei gatti, decise di sterminare i cani del Giappone, ma un coraggioso bambino samurai tagliò la testa del capo-clan, rendendo così possibile la vita dei quadrupedi nel suo paese.
Col passare del tempo però ci fu un’epidemia di influenza canina che, se non trattata, poteva rischiare di trasmutare e diventare virale anche fra gli esseri umani. Così il nuovo sindaco di Megasaki, un discendente dell’antica stirpe amante dei gatti Kobayashi, propone un emendamento storico: esiliare tutti i cani sull’Isola della Spazzatura, a cominciare dal proprio cane di famiglia.
Dopo sei mesi, circa 250.000 cani sono stati deportati, e quelli che abitano l’Isola si sono adattati, mangiando rifiuti e avanzi.
Il giovane Atari Kobayashi, lontano nipote del sindaco e suo pupillo, adottato dopo la tragica morte dei suoi genitori, parte con il suo piccolo aereo alla ricerca di Spots, il cane di famiglia inviato per primo sull’isola. Qui fa la conoscenza di Chief, un randagio che sopravvive sull’isola da tempo in compagnia di altri quattro cani abbandonati.
L’assurdità della compagnia è a tratti esilarante ma al tempo stesso profondamente significativa: tutti e cinque i cani hanno diversi elementi in comune, pur essendo caratteristicamente differenti. Emblematica la scena del “pasto preferito”: ognuno dice la sua, con gusti decisamente agli antipodi.
Chief inizia piano piano a contemplare l’esigenza di Atari ed il gruppo lo accompagna alla ricerca di Spots, dapprima creduto morto.
Nel frattempo sulla terraferma una giovane studentessa americana in scambio culturale diventa attivista di un movimento pro-cani che urla al complotto di stato: il candidato del partito della scienza infatti afferma di aver trovato una cura per l’influenza canina e di poter curare ogni cane del paese, ma il sindaco è perfido e malvagio, così lo fa uccidere dopo averlo screditato, inviando sull’Isola della Spazzaura cani-drone ed accalappiacani per “salvare” Atari dai suoi rapitori, i cani stessi, pitturati dalla stampa come criminali.
Ma Atari continua il suo viaggio, fino al ritrovamento del suo migliore amico, e da qui fino al finale il film diventa un vero capolavoro sia di tecnica che di contenuti.
Fino a quel punto, ho pensato che Fantastic Mr. Fox (la precedente animazione premio Oscar di Anderson) fosse superiore, ma poi è scattato qualcosa, quella scintilla che mi ha emozionato e fatto ricredere, rivalutando il film ed elevandolo al di sopra del racconto delle allegre volpi-ladro.
Il punto focale del film, a mio avviso, è quello dell’accettazione, in un senso relativamente ampio. Se non ti piacciono i cani, non devi per forza deportarli o sterminarli: basta che non te ne prendi uno! C’è un velato riferimento ai regimi totalitari del passato, anche se mai del tutto chiaro, che ci fa pensare e riflettere: sono davvero gli altri il problema? Non è che magari siamo noi ad avere delle assurde credenze? Non può essere, per una volta, che siano gli altri ad aver ragione?
Tutte domande che Wes Anderson vuole porci attraverso una favola che ha nei cani il giusto e perfetto protagonista: la loro lealtà, la loro semplicità e la loro tenacia sono il fulcro del film, che si muove attraverso quattro “parti” o capitoli, intrecciate perfettamente tra di loro con flashback esplicativi e adornati da una colonna sonora di prim’ordine, l’ennesimo capolavoro di Alexandre Desplat.
La scelta di non tradurre ogni parte in Giapponese è a mio avviso giusta, perchè rende molto bene il concetto di incomprensione: a volte bisogna venirsi incontro anche senza capirsi.
E poi, la scena migliore del film: come a sigillare un matrimonio, Spots chiede ad Atari se vuole Chief come suo cane, e lo stesso viene chiesto viceversa. Perchè a volte noi vogliamo un cane, ma è il cane che non vuole noi, e sarebbe forse giusto chiederglielo. Un concetto che può essere esteso per ogni tipo e forma di rapporto interpersonale.
In conclusione, Isle of Dogs è quel genere di film non per tutti, ma che vuole avvicinare il pubblico a concetti semplici e giornalieri che la vita ci propone in continuazione senza che noi ce ne accorgiamo. Inoltre è bello da vedersi, stilisticamente eccezionale, regia sempre impeccabile, un cast d’eccezione e una sceneggiatura che ti fa provare diverse emozioni, senza tralasciare alcune parti esilaranti, assurde e pienamente divertenti, con magari una lacrima nel mezzo.

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