Recensione su Quasi amici

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Fabergé e l’ovetto Kinder / 1 Aprile 2012 in Quasi amici

Il punto, direi, è tutto qui: davanti a una di queste uova (questa, per di più, di colore marrone) c’è chi ci vede un oggetto prezioso, raffinato, di inestimabile valore, che scandisce l’intensità di un rapporto che si perpetua nel tempo, e c’è chi ci vede un “ovetto Kinder”: puerile, inutile, di valore infimo, e nemmeno buono, neanche per fare pace, o per “tenere aperto un canale” relazionale.

Allo stesso modo c’è chi non può vivere senza Vivaldi, Bach e Berlioz,
e c’è chi li ritiene “inutili” e al suo posto venera Kool & the Gang, Earth, Wind & Fire, e così via.

Insomma, il punto è non tanto avere visioni comuni del mondo e delle sue incredibili varietà, ma avere voglia di presentarle all’altro, di mostrargliele, di indicargliene il valore dal nostro punto di vista e poi, con pari disposizione, ascoltare le sue.

L’incontro, la relazione, è tutta qui: in quella fase indefinita in cui ciascuno porta i propri oggetti (i propri valori, le proprie visioni), dove non si raggiunge un accordo, dove ciascuno rimane nel proprio, e se anche si lascia contaminare, colpire, affascinare dagli “oggetti” dell’altro non è questo risultato la misura del successo. Proprio come nella scena esemplare del concerto, la sera del compleanno di Philippe – ma il film ne è pieno -la relazione è quella danza: di corpi, di sguardi, di emozioni, di convinzioni, di passioni, di conoscenza e di voglia di condividerla con l’altro (attenzione: non voglia condividere a priori e comunque) in cui ciascuno dice la propria restando se stesso e insieme ascoltando e diventando un po’ l’altro.

Philippe e Driss sanno entrare in relazione, sanno incontrarsi e si toccano molto di più di quanto il titolo suggerisca. Philippe e Driss sanno darsi ciò di cui hanno bisogno senza rinunciare a se stessi. Philippe e Driss sanno cambiare quel tanto che basta per evolversi, senza snaturarsi. Philippe e Driss sanno amarsi, rispettarsi, sostenersi in ciò che per l’altro è essenziale e necessario, senza volerlo cambiare, senza averlo ingabbiato in una lettura a priori che diventi un’impalcatura che rende impossibile il contatto (uno scafandro, come il corpo insensibile di Philippe – ma Philippe non è insensibile – e come una “bollatura”, la fedina penale di Driss – ma Driss non è una fedina penale). Ma guardare con occhi limpidi, oltre le categorie, ci richiede sempre uno sforzo enorme, e forse è più grande lo sforzo che deve fare l’altolocato entourage di Philippe, che non quello di Driss, davanti all’evidenza di un corpo umano i cui meccanismi più comuni non funzionano più.

Ma quello che ho veramente voglia di dire è che Quasi Amici è un film sulla libertà: dietro la metafora del volo, dietro le corse sfrenate in macchina, dietro la contemplazione a 360 gradi dell’orizzonte marino, c’è un inno alla voglia di uscire dagli scafandri che ci limitano, siano essi culturali o fisici, reali o simbolici: uscire per vivere, con forza, con pienezza e con passione, la vita che ci abita dentro e che continua a pulsare, qualunque siano gli ostacoli, e di qualunque portata siano i limiti.

Ma infine, diciamolo, Quasi Amici è anche un film spassosissimo, divertente, frizzante, il cui sguardo impertinente sulla drammaticità ha tutta la freschezza e la fertilità di uno sguardo di bambino: impariamo, ragazzi, impariamo (e soprattutto ricordiamocelo alla prossima occasione)

Ah dimenticavo…

– François Cluzet (Philippe) a mio parere è bravissimo; certamente complici i primissimi piani, è comunque incredibilmente espressivo, intenso, passionale nella sua immobilità (ma quanto avrei voglia di chiedergli quante volte ha provato la scena in cui sta per cadere dalla sedie, per essere così credibilmente tanto “assente” dal proprio corpo 🙂 ]

– bella la regia e i tagli delle inquadrature, il film si difende bene anche da questo punto di vista; pur non offrendo nulla di straordinario, è ben girato.

– e la musica: la colonna sonora, intensa e ricca di splendidi pezzi, a tratti riesce a essere proprio perfetta nell’accordo con la “temperatura” delle scene. In ogni caso, una menzione a Ludovico, ci vuole 🙂

Infine, cosa facciamo? Abboniamo questa volta ai nostri amici distributori il cambiamento del titolo? Ma perché, dico io, in Italia deve sempre vincere il buonismo, il sentimentalismo mediocre, e cose così; ma quanta fertilità c’era nell’originale “Intouchable”? Uffa! 😉

1 commento

  1. paolodelventosoest / 17 Settembre 2012

    Viva gli ovetti Kinder! 🙂

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